L’olivicoltura italiana va rifondata

oliveto abruzzo

Per cercare di capire qual è la situazione dell’olivicoltura italiana basta partire dai numeri: se si confronta la produzione media di olio del quadriennio 1998-2001 con quella 2015-2018 si vede che l’Italia ha avuto una flessione produttiva del 46%. In 20 anni l’olio italiano si è quasi dimezzato.

È vero che il dato del 2018, circa 180.000 tonnellate, è un record negativo dovuto anche a situazioni meteorologiche estreme (ma purtroppo sempre più frequenti) ma resta il fatto che fino ai primi anni 2000 si viaggiava stabilmente oltre le 500.000 tonnellate, con annate vicine o superiori alle 700.000, mentre nelle ultime stagioni si raggiungono a stento, quando va bene, le 400.000. Il tutto a fronte di una superficie sostanzialmente stabile.
Cosa sta succedendo allora negli oliveti italiani?

Frascarelli e Farchioni
Angelo Frascarelli (a sinistra) e Pompeo Farchioni

Su questa complessa questione L’Informatore Agrario ha messo a confronto due esperti che, a diverso titolo, si occupano del settore olivicolo italiano: Angelo Frascarelli, docente all’Università di Perugia, e Pompeo Farchioni, in rappresentanza di una famiglia che produce olio da più di 200 anni.

Parole forti e anche provocatorie quelle usate da Frascarelli: «Troppo spesso la professionalità degli olivicoltori è scarsa, con un concetto di qualità astratto e un’idea dell’olivo come una pianta da non coltivare. Non vengono fatti interventi tecnici adeguati perché non sono imprenditori».

L’aspetto più paradossale di tutto ciò è che le opportunità da sfruttare a livello di mercato ci sarebbero, perché la domanda mondiale di olio d’oliva è in crescita, pur se con grandi differenze da zona a zona. «Se un prodotto si consuma ma non ce n’è abbastanza, quale miglior business che mettersi a produrlo?». La domanda di Farchioni sembra banale, e la risposta scontata. Ma a guardare come vanno le cose in Italia sembra proprio che non sia così.

Pur avendone la possibilità, non riusciamo a produrre tutto l’olio che il mercato ci chiede.

A questo proposito Farchioni ha le idee molto chiare: «Occorre distinguere tra un “oliveto-giardino” e uno che deve produrre. Bisognerebbe fare un censimento per dividere gli oliveti storici, ai quali si potrebbe dare un contributo per il mantenimento, gli oliveti di interesse paesaggistico, e quelli produttivi, ovviamente la maggior parte, che dovrebbero sostenersi sul mercato».
Cambiare l’olivicoltura italiana si deve e si può: occorrono nuovi impianti, professionalità, produttività e qualità.

 

Tratto dall’articolo pubblicato su L’Informatore Agrario n. 28-29/2019
L’olivicoltura italiana va rifondata, altrimenti non ha futuro
di A. Andrioli,  N. Castellani
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