Bene la tracciabilità, ma resta ancora tanto da fare

Il tema della tracciabilità delle produzioni agricole e agroalimentari è da tempo oggetto di dibattito, non solo perché rappresenta uno strumento di tutela della salute pubblica, ma anche per il ruolo di garanzia rispetto all’origine dei prodotti e alla loro salubrità. Aspetti, questi ultimi, spesso cavalcati dall’industria di trasformazione e dagli agricoltori come elementi di distintività della produzione made in Italy, nel tentativo di veder riconosciuto maggior valore aggiunto rispetto ai prodotti provenienti dall’estero.

Si tratta di una strategia legittima, fondata sulla consapevolezza di una qualità decisamente superiore dei prodotti del settore primario nazionale, che primeggia in Europa in termini di attenzione all’ambiente e alla salute pubblica, come dimostrano, ad esempio, i dati sui residui di agrofarmaci dell’Efsa.

D’altra parte, il controllo sociale sull’attività degli agricoltori, negli ultimi decenni, è cresciuto esponenzialmente, anche grazie alle posizioni assunte dagli stessi agricoltori attraverso le loro organizzazioni professionali, Coldiretti in primis. Spinti dall’opinione pubblica gli operatori agricoli hanno iniziato un percorso virtuoso per dotarsi di conoscenze e tecnologie finalizzate a ridurre l’impatto ambientale, salvaguardare la salute dei consumatori e rendere sempre più trasparente il processo produttivo. Basti pensare al numero di atomizzatori a recupero attivi su alcuni territori particolarmente antropizzati, alla sempre maggiore sensibilità nei confronti della salute dei suoli, alla continua espansione delle superfici coltivate con i criteri dell’agricoltura di precisione, ecc.

Certamente siamo all’inizio del percorso, ma la strada è segnata e nessun agricoltore può esimersi dal percorrerla. Investimenti in innovazione, risorse umane e conoscenza sono gli strumenti da mettere in campo.

È emerso chiaramente durante la tavola rotonda organizzata da L’Informatore Agrario lo scorso 15 giugno a Parma, nell’ambito della manifestazione Solids, dove si sono confrontati gli esponenti di Assalzoo (Alexander Rieper, vicepresidente), Assosementi (Eugenio Tassinari, presidente), Compag (Fabio Manara, presidente) e aziende leader nel settore della prima trasformazione industriale (Marco Sigola, quality manager Cereal Docks Group) e dei fertilizzanti (Mariano Alessio Vernì, direttore generale Silc fertilizzanti).

La tracciabilità, se realizzata e documentata, al di là di quanto richiesto per soddisfare il mero adempimento degli obblighi di legge ai quali tutte le componenti della filiera già sottostanno, è un valore. Ma quanto emerso dal confronto tra i rappresentanti del comparto ha evidenziato che c’è ancora molto lavoro da fare.

Le infrastrutture portuali, ad esempio, risalgono in grande parte agli anni 60-70-80 quando il problema della separazione dei lotti e della loro tracciabilità non esisteva e vanno adeguate attraverso investimenti sia infrastrutturali sia tecnologici.

La stessa considerazione vale per la movimentazione dei lotti all’interno delle imprese e per la logistica sui territori. Inevitabilmente l’implementazione di una tracciabilità sempre più affidabile sarà un processo graduale che potrà essere realizzato in modo soddisfacente via via che la tecnologia renderà possibile segmentare e seguire i lotti. Perché, come è stato sottolineato durante la tavola rotonda, né semi né concimi né mangimi sono provvisti di codici a barre.

È però doveroso tener presente questo obiettivo soprattutto nella programmazione della spesa pubblica, come le risorse del Pnrr destinate al miglioramento del sistema nazionale degli stoccaggi dei raccolti o gli aiuti accoppiati destinati agli agricoltori per sostenere le produzioni in difficoltà. Ed è altrettanto doveroso intraprendere tutte le iniziative già oggi possibili, come la certificazione della tracciabilità tramite blockchain o iniziative come Granaio Italia e l’obbligo di utilizzo di seme certificato. Granaio Italia, anche alla luce delle carenze della logistica portuale, va senz’altro implementato, ma corre l’obbligo di dialogare con stoccatori e industria di trasformazione per evitare l’appesantimento burocratico e di costi, sfruttando la tecnologia e le sinergie tra sistemi di gestione dei flussi produttivi già esistenti.

Un altro strumento al quale non si può rinunciare è quello del seme certificato, che sta all’inizio dell’intero processo di tracciabilità e certificazione dando certezza della qualità, della varietà e della localizzazione delle coltivazioni.

Antonio Boschetti