Inquinamento atmosferico: attaccare l’agricoltura è una moda

frisone stalla

Mettere sotto accusa l’agricoltura indicandola come principale causa dell’inquinamento atmosferico sembra essere diventata una moda. Dopo le trasmissioni televisive a senso unico arrivano anche le distorsioni di Greenpeace e altri che utilizzano una ricerca scientifica sostanzialmente positiva citando però solo i dati più critici.

Il riferimento è al recente studio dell’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) presentato lo scorso 21 aprile. Il rapporto fa innanzi tutto una distinzione tra gas serra e inquinanti atmosferici, in particolare ammoniaca.

I gas serra prodotti del settore agricoltura nel 2018 sono diminuiti del 13% rispetto al 1990 e rappresentano il 7% del totale, contro l’80% del settore energetico e l’8% dei processi industriali.

Per quanto riguarda invece gli inquinanti atmosferici, principalmente ammoniaca, il settore agricolo contribuisce per il 94% del totale. Complessivamente l’83% di queste sono a carico degli allevamenti e in particolare di bovini, suini e avicoli. Dal 1990 al 2018 le emissioni di ammoniaca sono comunque diminuite del 23%. La direttiva europea National Emission Ceilings fissa degli obiettivi di riduzione dell’ammoniaca al 2020 e al 2030 del 5% e del 16% rispetto ai livelli di emissione nazionale del 2005 e secondo le attuali stime l’Italia sarebbe sulla buona strada per il conseguimento degli obiettivi.

Ma c’è chi si spinge anche oltre e mette in relazione l’intensità delle pratiche agricole con la diffusione di Covid-19.

Uno studio condotto dal laboratorio Cultlab della Scuola di agraria dell’Università di Firenze «…mette in relazione il numero di casi di coronavirus registrati sul territorio nazionale e i modelli di agricoltura presenti nelle varie zone del Paese, evidenziando una maggiore incidenza del virus nelle zone agricole periurbane e ad agricoltura intensiva, in particolare nelle aree della Pianura Padana, del fronte adriatico dell’Emilia-Romagna, della valle dell’Arno tra Firenze e Pisa, e nelle zone intorno a Roma e Napoli, dove si registra un più alto livello di meccanizzazione, impiego della chimica e agroindustria e maggiori interrelazioni con urbanizzazione e inquinamento…».

Come giustamente rileva l’Aissa, l’Associazione delle società scientifiche agrarie, sembra piuttosto azzardato stabilire un rapporto di «causa-effetto» tra il livello di intensificazione dell’agricoltura e la diffusione del virus.

È palese, infatti, che le diverse aree del Paese prese in considerazione differiscono per densità di popolazione, grado di industrializzazione, livello di traffico stradale, livello di cementificazione, qualità dell’aria e molti altri fattori che possono aver favorito la diffusione del contagio.

Ormai non resta che attendere la prossima puntata per vedere di cos’altro verrà accusato il settore agricolo.