Bellussera, una forma di allevamento della vite che scompare

Una Bellussera e un vigneto a filare visti dalle immagini di Google Earth Pro a Vazzola (TV)

Nel 1882, a Tezze di Piave, frazione di Vazzola (Treviso), i fratelli Antonio e Girolamo Bellussi idearono una forma di allevamento adatta alla vigoria del Raboso Piave, che nell’alta pianura a sinistra del fiume Piave trovava il suo areale ideale. Il Raboso Piave ha, inoltre, gemme basali poco fertili e si presta a forme di allevamento lunghe. Le viti venivano potate con un cordone permanente obliquo rispetto al tronco in modo da creare dei raggi ascendenti verso l’esterno. I tralci di 1 anno portavano 10-12 gemme e venivano piegati ad archetto. Il sesto d’impianto era ampio, 8 × 4 m circa, e la forma di allevamento alta, dato che la punta del cordone arrivava intorno ai 4 m. Se da un lato tali dimensioni rendevano lunghe e faticose le operazioni di potatura e vendemmia, dall’altro favorivano la circolazione dell’aria.

In un clima come quello della pianura trevigiana, caratterizzato da estati calde e umide, nebbie e gelate precoci, il sistema dei Bellussi garantiva una maggiore salubrità delle uve. I pericoli maggiori della Pianura Padana, peronospora e gelate tardive, risultavano ampiamente contenuti grazie all’areazione garantita dall’altezza delle piante e l’ampiezza del sesto d’impianto. Inoltre, dato che il Raboso è una varietà tardiva, una forma espansa era necessaria per un anticipo della maturazione. Per tali motivi, la forma di allevamento, nota come «Bellussi», «Bellussera» o «raggi», predominava nella sinistra Piave negli anni 50 del 1900. Inoltre, trovò applicazione anche in altre zone del Veneto, Emilia-Romagna e Friuli-Venezia Giulia.

L’allevamento in epoca moderna

In auge fino agli anni 70 del 1900, le Bellussere hanno caratterizzato il territorio della sinistra Piave disegnando ricami unici e creando un paesaggio del tutto singolare (foto apertura e foto 2). Verso la fine del secolo scorso la necessità di razionalizzare gli impianti vitivinicoli e la loro gestione ha indotto l’adozione di forme di allevamento a spalliera. Queste ultime sono più adatte alla meccanizzazione richiedendo circa il 20% delle ore di lavoro necessario per la gestione della Bellussera.

Il progetto per il rilevamento della superficie a Bellussera

Presso l’Istituto agrario «G. B. Cerletti» di Conegliano (Treviso), nell’ambito della disciplina «Gestione dell’ambiente e del territorio», durante l’anno scolastico 2020-2021 è stato fatto uno studio per valutare la riduzione della superficie allevata a Bellussera nella sinistra Piave.

Il rispetto del passato per preservare il futuro

I risultati dello studio mostrano l’inesorabile declino dell’adozione di una forma di allevamento locale e tradizionale che per quasi un secolo ha caratterizzato la zona vitivinicola della sinistra Piave. Dal punto di vista sociale il paesaggio è la testimonianza di una cultura e delle tradizioni locali. Il paesaggio, dunque, concorre a rafforzare il senso di appartenenza e radicamento in un luogo. Inoltre, la Bellussera, come altre forme di allevamento tradizionali, rappresenta un modello di sostenibilità che dovrebbe essere conservato.

Va infine rilevato che la collocazione della fascia produttiva più in alto rispetto alla maggior parte delle forme di allevamento a spalliera determina la maturazione dell’uva in un microclima che potrebbe rivelarsi migliore per la qualità e la salubrità dell’uva. Di fronte alle sfide poste dal cambiamento climatico, forme di allevamento più espanso potrebbero contribuire a ridurre lo stress termico e luminoso a cui sono spesso sottoposti i grappoli in forme di allevamento più contenute. D’altro canto, anche il rischio associato alle gelate tardive è minore data la distanza delle gemme e i germogli dal suolo dove ristagna l’aria più fredda. Malgrado la sua incompatibilità con la necessità di meccanizzazione del vigneto, la tutela di tale patrimonio dovrebbe essere agevolata.

 

Tratto dall’articolo pubblicato su Vite&Vino n. 6/2022
Bellussera, una forma di allevamento che scompare
di A. Cogato, F. Politano
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