Alla ricerca del terroir perduto

Il terroir è uno dei concetti più difficili da definire nell’attuale enologia, post-internazionale. La progressiva diffusione della viticultura di qualità in aree lontane dalla vecchia Europa ha messo in crisi ogni riferimento al territorio. L’eccellenza di un vino viene oggi spesso legata all’idea di zona vocata o addirittura di vino piacevole e perciò ben riuscito. In realtà il terroir è un termine che dovrebbe evocare l’unicità, l’esclusività che nasce da scelte basate sulla corretta interpretazione del territorio e delle uve che meglio vi crescono.

L’espressione delle caratteristiche varietali

Il primo passo verso il terroir dovrebbe essere l’esaltazione delle caratteristiche varietali. Le quali possono essere stimate soprattutto valutando le note olfattive del futuro vino. La visione moderna dell’aromaticità in enologia si basa sul presupposto che sia i composti presenti in concentrazioni minori (terpeni, pirazine, norisoprenoidi, tioli volatili, fenoli aromatici) che quelli più abbondanti (esteri ed alcoli superiori) sono in gran parte legati alla varietà. Esteri e corrispondenti alcoli superiori costituiscono un basamento aromatico dal quale solo alcuni composti sono in grado di emergere. Questa osservazione implica che raramente una molecola è percepibile singolarmente, come può avvenire nel Sauvignon. Normalmente l’aroma di un vino è costituito dal bilanciamento di più gruppi di composti, come si osserva soprattutto nello Chardonnay. Per questo motivo una Garganega sarà sempre e comunque diversa da un’Inzolia o un Teroldego da un Sangiovese.

Gli unici aromi non varietali sono quelli dovuti ai difetti o a forzature fermentative. Fra questi è opportuno includere anche gli esteri ottenuti dagli acidi grassi, che sono prodotti dal metabolismo lipidico dei lieviti e correlati più alle difficoltà fermentative che alla varietà.

Semplificando considerevolmente il quadro aromatico possiamo dire che tramite le tecnologie di cantina possiamo indirizzare le uve verso profili in cui sono esaltati gli aromi del mesocarpo (esteri), quelli del pericarpo (terpeni) o i tioli volatili. Quest’ultimi oltrepassano il basamento olfattivo in molte varietà, pur essendo presenti in quantità inferiori al microgrammo per litro, centomila volte inferiori alle concentrazioni degli esteri. I tioli volatili sono sensibili alla presenza di alcune forme reattive delle catechine ossidate (chinoni). Per esaltare questa classe aromatica è indispensabile effettuare tecniche di ammostamento strettamente riduttive, che ne preservino una quantità olfattivamente percepibile dal degustatore.

Non solo biotecnologia

Estrarre e convertire un precursore aromatico non implica automaticamente renderlo disponibile per il degustatore. L’espressione varietale di un vino può essere offuscata dalla presenza di interferenze. Spesso le catechine, presenti nella stessa zona dell’uva in cui sono presenti i precursori aromatici, costituiscono la fonte primaria dell’alterazione dello stato redox del vino e reprimono anche la sua aromaticità di base. In alcuni casi si osservano tendenze riduttive (vinoso, polvere, cassetto, cartone, crosta di pane, straccio bagnato) in altri sentori ossidativi non ricercati (erba tagliata, mela verde, smalto, mieloso, marsalato).

In via semplificata possiamo dire che esistono due aree di qualità varietale. Nella prima l’equilibrio fra aromi varietali e catechine si basa sulla limitazione dell’estrazione e un affinamento non impegnativo. La seconda strategia prevede una macerazione importante, ma non eccessiva, che permetta di condurre un affinamento adeguato, più prolungato, giustamente ossigenativo, spesso con l’apporto di tannini del legno, in modo da soddisfare la richiesta d’ossigeno delle catechine/tannini dell’uva.

 

Tratto dall’articolo pubblicato su Vite&Vino n.5/2020
Alla ricerca del terroir perduto
di M. De Paola
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