Tante lacune legislative bloccano la canapa italiana

Canapa sativa

Uno dei principali utilizzi della canapa sativa, quello alimentare, è da tre anni in attesa di una regolamentazione, la cui mancanza, inevitabilmente, cala un’ombra sulla salubrità degli alimenti prodotti e sulla loro effettiva liceità di commercializzazione.

Il testo di legge n. 242/2016 permette la coltivazione di canapa proveniente da varietà certificate, ovvero quelle iscritte al Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, ai sensi dell’articolo 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002.

All’articolo 4 la normativa prevede il controllo da parte delle forze dell’ordine del principio attivo THC che deve essere ricompreso in un range tra lo 0,2 e lo 0,6%.

Il primo vulnus della normativa sta nel non aver altrettanto meglio specificato quale limite dello stesso principio attivo, THC, sia previsto negli alimenti e nei prodotti a base di canapa, lasciando l’onere della definizione dei limiti a un redigendo decreto del Ministero della salute. Uno degli altri prodotti di canapa che potrebbe fare da volano allo sviluppo della coltivazione è l’infiorescenza.

Problemi con le infiorescenze

La legge 242/2016 ne prevede la coltivazione per scopi florovivaistici, cioè ornamentali, tanto che il Mipaaft ha emanato nel 2018 una circolare, la n. 5059 del 23-05-2018, nella quale chiarisce che, purché tali prodotti derivino da una delle varietà ammesse, iscritte nel Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, il cui contenuto complessivo di THC della coltivazione non superi i livelli stabiliti dalla normativa, e sempre che il prodotto non contenga sostanze dichiarate dannose per la salute dalle Istituzioni competenti, le infiorescenze rientrano nell’ambito dell’articolo 2, comma 2, lettera g), rubricato «Liceità della coltivazione», ossia nell’ambito delle coltivazioni destinate al florovivaismo.
Su questo punto però si è espresso il Ministero degli interni che proprio recentemente, con la direttiva del 9 maggio 2019, ritiene che il fiore di canapa non sia commercializzabile e che il prodotto può essere detenuto dal coltivatore vivaista solo se contenente THC fino allo 0,6%.
Questa direttiva va in contrasto con una sentenza della Sesta sezione Penale della Corte di cassazione che il 31 gennaio 2019 ha annullato un provvedimento di sequestro preventivo di infiorescenze, assunto ai sensi dell’articolo 73 comma 4 del Testo unico sugli stupefacenti emesso contro un commerciante al dettaglio. Nella stessa sentenza, la Corte di cassazione considera lecita la commercializzazione di tutti i prodotti di canapa derivanti da quelle varietà certificate che presentano un contenuto di THC inferiore allo 0,6% perché ormai sottratti alla disciplina del dpr n. 309/90.

Il nodo dell’«efficacia drogante»

Ma sempre la Cassazione, con una sentenza delle Sezioni Unite Penali, di cui circola solo l’informazione provvisoria n.15 del 30/05/2019, sembra escludere dai prodotti commercializzabili a base di canapa sativa, le foglie, le inflorescenze, l’olio e la resina e in un passaggio successivo afferma che si integra il reato previsto dall’art.73 del dpr 309/90 con le condotte di cessione, di vendita e, in genere, con la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, dei prodotti derivati dalla coltivazione della C. sativa, salvo che tali prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante, collegando «l’efficacia drogante», con molta evidenza, al contenuto di THC inferiore allo 0,6%.
Il punto nodale dell’intera vicenda è l’impossibilità, al momento, di stabilire e/o prevedere con assoluta precisione il contenuto di THC per varietà e per epoca di maturazione, perché il principio attivo, non essendo esclusivamente controllato geneticamente, è molto variabile al variare delle condizioni climatiche, agronomiche e pedologiche.

 

Tratto dall’articolo pubblicato su L’Informatore Agrario n. 22/2019
Lacune legislative bloccano la canapa
Di R. Pergamo
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