Olivicoltura italiana e scarsa competitività

Lo stato dell’olivicoltura nazionale, fotografato anche grazie ai dati dell’ultimo Censimento agricoltura, può essere sommariamente riassunto come segue.
Oltre 640.000 aziende che operano su poco meno di 1 milione di ettari, con un patrimonio stimato di 160 milioni di piante.
Nel corso degli anni l’olio prodotto ha raggiunto valori compresi tra 175.000 e 550.000 t, con valori di autoapprovvigionamento nazionale tra il 35 e l’85%.
Le produzioni bio rappresentano il 24%; 48 sono le ig riconosciute, di cui 42 dop e 6 igp, che però stentano a raggiungere il 2% della produzione commercializzata (nel 2019 solo 11.108 t certificate). Oltre 4.400 i frantoi censiti, con un dato di sicuro non aggiornato per il numero di chiusure registrate nel Salento a causa della produzione azzerata dalla devastante epidemia di Xylella fastidiosa.
Ne deriva un profilo dell’olivicoltura nazionale che è composto da meno del 40% di aziende competitive, pur se di diversa tipologia per superfici aziendali e produzioni operate, a fronte di imprese marginali che rappresentano oltre il 60% del totale. A livello mondiale, domanda e offerta per l’olio di oliva sono raddoppiate negli ultimi 30 anni; nello stesso periodo il consumo di olive da mensa è triplicato.

Settore in profonda crisi

La bilancia commerciale degli scambi con l’estero è sempre in rosso con valori che mostrano ampie fluttuazioni nel corso degli anni, in relazione alla produzione nazionale realizzata in ogni stagione. Nel contesto internazionale, l’Italia è il 1° consumatore, il 1° importatore, il 2° esportatore e ormai è scesa dal podio dei primi 3 Paesi produttori.
In questa annata la produzione nazionale si attesta ben al di sotto delle 250.000 t, lontana dal volume di autoconsumo che è stimato in poco meno di 500.000 t. Per non parlare dell’intero fabbisogno italiano che raggiunge il milione di tonnellate, rendendo la situazione ancora più drammaticamente complessa.
Consumeremo olio di provenienza estera e lo stesso sarà utilizzato per il prodotto esportato dagli affermati e ricercati brand italiani. Senza considerare ulteriori dati, non è questa la sede opportuna (un quadro completo può essere consultato nell’articolo: «Per l’olio un’annata da -37%», pubblicato su L’Informatore Agrario 40/2022), bastano questi numeri da soli a delineare la profonda crisi del settore olivicolo-oleario, che ha assunto carattere non più congiunturale, ma strutturale.
Lasciando da parte la baldanzosa autoreferenzialità che ci contraddistingue, dovremmo semplicemente chiederci per quale motivo, in futuro, il mercato internazionale dovrà comprare prodotto di marchi italiani, laddove è ormai palese che, a eccezione delle nicchie delle dop e igp, molte confezioni contengono olio (di buona qualità) di altre provenienze.
Perché pagare un surplus e non approvvigionarsi direttamente in altri Paesi?
Posta così la questione, non sembra che il futuro riservi prospettive felici. Un percorso che qualche decennio fa ha interessato le mandorle (nel 1960 eravamo leader e la Camera di commercio di Bari determinava il prezzo mondiale) e che oggi, ahimè, vede altre eccellenze nazionali a forte rischio di ridimensionamento.

Affrontare le criticità per invertire la rotta

È possibile uscire da questa spirale che sta sempre più marginalizzando il comparto nazionale? La risposta è positiva, a patto che vengano affrontate una volta per tutte alcune criticità che hanno determinato la situazione attuale. Non c’è un’unica ricetta per le innumerevoli «olivicolture italiane» che distinguono il territorio nazionale, contribuendo in maniera significativa a caratterizzarne il paesaggio, ma tante soluzioni per le diverse situazioni. È fondamentale incrementare la produzione attraverso la realizzazione di nuovi impianti a elevata meccanizzazione e, laddove possibile, favorire la ristrutturazione di quelli esistenti affinché sia aumentato il grado di meccanizzazione per le differenti attività colturali e aumentare sostenibilità economica e competitività delle aziende, per lo più di piccole dimensioni, anche alla luce dell’ormai cronica mancanza di manodopera. L’Italia presenta importanti aree vocate alla coltivazione dell’olivo che possono assicurare elevate quantità e qualità delle produzioni, ben dotate di risorse irrigue e in pianura.
Il comparto vivaistico nazionale è in grado di offrire piante di qualità genetico-sanitaria del vastissimo patrimonio genetico nazionale (599 varietà iscritte al Registro nazionale delle varietà di fruttiferi, di cui ben 161 disponibili per la certificazione volontaria QVI, con elevatissime garanzie fitosanitarie e di certezza varietale).
Il know how a disposizione (in gran parte made in Italy) è veramente ampio per aziende grandi e piccole nei vari settori di applicazione e con soluzioni idonee per irrigazione, gestione del suolo, gestione della chioma, protezione e raccolta. L’innovazione necessita di essere ben interpretata e applicata per usufruire appieno dei suoi benefici.
Un ruolo strategico dovrà esser svolto dal settore della formazione, sia da parte degli istituti superiori a orientamento agrario, sia dalle università, indirizzata all’utilizzo delle nuove tecnologie e forme di gestione di impianti concepiti e condotti secondo criteri razionali votati alla piena sostenibilità ambientale ed economica.
Di pari passo sono necessari la formazione e l’aggiornamento professionale degli operatori di campo, e in questo un grande ruolo potrà essere svolto dalle associazioni di categoria che raggruppano i produttori.
Solo se prevarranno un gioco di squadra e lo schema win to win, mettendo da parte posizioni di presunta superiorità e autocelebrazione che hanno portato il comparto nelle condizioni attuali, l’olivicoltura nazionale potrà in parte riprendersi un ruolo importante nello scenario globale del settore.

Luigi Catalano
Direttore CIVI Italia – Roma