Kaki, coltura di nicchia ma di crescente interesse

Il kaki è tra le specie frutticole coltivate da più tempo, sia a livello mondiale, sia in Italia, dove le prime testimonianze relative alla presenza di impianti risalgono ai primi del 900. Attualmente, in virtù della sua diffusione, è certamente da considerare una specie di nicchia, ma meritevole di essere valutata negli areali maggiormente vocati, dove possono sussistere spazi di interesse.

L’inquadramento mondiale della specie evidenzia, al 2020, poco più di 1 milione di ettari coltivati nel mondo, per una corrispondente produzione di circa 4,7 milioni di tonnellate. La quasi totalità degli impianti e della relativa produzione, tuttavia, è concentrata in Cina, che costituisce una sorta di realtà autonoma, solo in minima parte aperta agli scambi mondiali.

Nel resto del mondo, sono presenti poco meno di 95.000 ettari, un dato che si mantiene sostanzialmente stabile nel tempo, mentre l’offerta, seppur oscillante, è in tendenziale crescita e si è attestata, negli ultimi anni, attorno a 1,5 milioni di tonnellate.

Escludendo la Cina, nel resto del mondo sono presenti
poco meno di 95.000 ettari, un dato che si mantiene
sostanzialmente stabile nel tempo.

La situazione italiana

Nel dopoguerra, il kaki vantava ben 15.000 ettari coltivati in Italia, per lo più non specializzati, ma con l’avvento della frutticoltura specializzata, la specie ha subito un drastico ridimensionamento. Attualmente, invece, i dati Istat evidenziano la presenza di oltre 2.850 ettari investiti, al 2021, con una crescita di oltre 350 ettari nel corso dell’ultimo decennio, a testimonianza di una certa ripresa dell’interesse verso questo frutto. Il tasso di rinnovo degli impianti si mantiene piuttosto vivace, con valori fra l’8 e il 10%.

A livello territoriale la coltivazione del kaki è concentrata soprattutto in due regioni: Emilia-Romagna e Campania che, nel complesso, assommano circa l’80% delle superfici investite. In Emilia-Romagna, in particolare, la coltivazione si è espansa di oltre 180 ettari nel decennio 2012-2021, collocandosi attorno a 1.300 ettari, mentre in Campania si denota una sostanziale stabilità attorno a 1.000 ettari investiti. Al di fuori delle due principali regioni, un crescente interesse si rileva in Sicilia, con superfici passate da 270 a 360 ettari nell’ultimo decennio.

La produzione nazionale ha oscillato, sempre con riferimento agli ultimi dieci anni, fra 43.000 e 55.000 tonnellate. Al pari della maggior parte delle specie frutticole, le avversità climatiche hanno notevolmente penalizzato l’offerta nell’ultimo biennio, soprattutto in Emilia-Romagna, determinando una minor disponibilità di prodotto sul mercato, inferiore a 48.000 tonnellate. Per la campagna in corso, invece, si prevede il ritorno su normali livelli produttivi.

Redditività della coltivazione

Pur essendo la pianta di kaki in grado di esprimere rese produttive anche più elevate, in un’ottica di lungo periodo si può considerare una resa prudenziale variabile fra 25 e 30 tonnellate/ha che corrisponde, pertanto, ad un costo unitario valutabile tra 0,47 e 0,57 euro/Kg.

I prezzi medi alla produzione dei kaki comuni hanno conosciuto una parabola discendente nel corso dell’ultimo decennio, passando da oltre 0,60 euro/Kg ad una media di 0,40-0,45 euro/Kg che si è mantenuta stabilmente fino alla scorsa campagna, quando la scarsità dell’offerta nazionale ha determinato un rialzo di circa 0,20 euro/kg rispetto all’anno precedente.

I prezzi medi alla produzione dei kaki comuni hanno conosciuto una parabola discendente nel corso dell’ultimo decennio fino alla scorsa campagna, quando la scarsità dell’offerta nazionale ha determinato un rialzo di circa 0,20 euro/kg rispetto all’anno precedente.

Tralasciando, dunque, l’ultima stagione per via dei suoi specifici connotati, si può rilevare un sostanziale equilibrio tra costi e prezzi per le imprese capaci di raggiungere eccellenti performances produttive, mentre con produzioni più basse non si riesce ad ottenere la copertura totale dei costi sostenuti. Come sempre, va ricordato che nelle aziende di minori dimensioni, che peraltro rappresentano il target di riferimento per la coltivazione del kaki, buona parte dei costi risulta di tipo figurativo, in quanto dovuto ad apporto diretto di lavoro e capitali da parte dell’imprenditore. Nel complesso, dunque, in annate ordinarie la coltura appare in grado di esprimere comunque un accettabile margine di redditività, anche se preoccupa la rigidità dei prezzi alla produzione, nell’ottica di eventuali ulteriori aumenti dei costi per le materie prime o altri fattori produttivi.

 

Tratto dall’articolo pubblicato su L’Informatore Agrario n. 39/2022
Kaki, coltura di nicchia ma di crescente interesse
di A. Palmieri
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