Ultima chiamata per rinnovare l’olivicoltura italiana

La campagna olivicola 2020 in Italia dovrebbe attestarsi introno alle 250.000 tonnellate di olio, con un calo del 35% rispetto all’anno precedente e, soprattutto, distante anni luce dalle medie produttive degli anni tra il 2000 e il 2010, abbondantemente oltre le 500.000 tonnellate. Se pensiamo che nel 2016 e nel 2018 siamo scesi addirittura sotto le 200.000 tonnellate appare evidente che qualcosa non funziona nell’olivicoltura italiana.

Un problema non da poco, considerando che con oltre un milione e 180.000 ettari si tratta della prima coltura per superficie del nostro paese.

L’Informatore Agrario ha fatto il punto della situazione mettendo intorno a un tavolo, virtuale, il mondo della produzione rappresentato da David Granieri, presidente di Unaprol- Consorzio Olivicolo Italiano, un economista che da sempre si occupa di olivicoltura come il professor Angelo Frascarelli dell’Università di Perugia, e il sottosegretario alle politiche agricole Giuseppe L’Abbate che, a parte gli incarichi istituzionali, come pugliese conosce da vicino le questioni olivicole.

La maggior parte della superficie a oliveto italiana, ha rilevato Frascarelli, non remunera nemmeno il lavoro. Si tratta per lo più di un’attività part-time, quasi hobbystica.

Un’affermazione confermata dai dati: secondo Ismea solo il 37% delle aziende olivicole italiane sono specializzate e in grado di sostenere la competitività del mercato. Il restante 63% possono essere considerate aziende marginali, per lo più familiari e orientate prevalentemente all’autoconsumo o poco più.

Di fronte a un quadro del genere quello che serve – dice Frascarelli – è una nuova stagione di investimenti, che punti all’utilizzo di tecniche razionali per aumentare la redditività, tanto più se pensiamo che «Un oliveto moderno e ben condotto ha una redditività molto interessante, superiore a quella dei seminativi».

«L’impresa deve fare economia, altrimenti facciamo i giardinieri» ha concordato il sottosegretario L’Abbate. Fondamentale quindi, per L’Abbate, è puntare su due fattori: la ricerca e l’accesso al credito. La ricerca è essenziale per individuare e selezionare le migliori cultivar per le nuove forme di impianto, l’accesso al credito deve permettere all’azienda di investire uscendo dalla logica dei sussidi.

Anche David Granieri concorda sulla necessità di una svolta, ma senza seguire ciecamente il modello spagnolo. L’olivicoltura è un asset strategico per l’agricoltura, specialmente nelle aree interne, e il suo valore più grande è la distintività: largo quindi ai moderni impianti ma al servizio dell’enorme e unico patrimonio varietale del nostro Paese.

Come sempre, per migliorare non basta la volontà, occorrono i finanziamenti e adesso le possibilità di reperirli sono concrete: si chiamano Next Generation e nuova ocm. La vera svolta potrebbe venire dalla nuova ocm che, come sottolinea L’Abbate, metterà a disposizione del settore olivicolo 34 milioni di euro all’anno privilegiando gli investimenti in campo. Quando si progettò il Piano olivicolo si quantificarono le necessità in 90 milioni di euro: beh, «adesso li abbiamo» dice il sottosegretario.

Non sfruttare questa occasione sarebbe delittuoso.

 

Tratto dall’articolo pubblicato su L’Informatore Agrario n. 3/2020
Ultima chiamata per rinnovare l’olivicoltura italiana
di A. Andrioli
L’articolo completo è disponibile per gli abbonati anche su Rivista Digitale