L’Opinione di Geremia Gios
Parlamento europeo e Consiglio dell’UE hanno recentemente raggiunto un accordo (da ratificare entro dicembre) sul programma Next Generation EU anticipando gli interventi al 2021 e 2022 in relazione alla quota di fondi per lo sviluppo rurale. Per l’Italia si tratta di 925 milioni di euro (1,2 miliardi con gli anticipi sui fondi di sviluppo rurale). L’ammontare complessivo di fondi utilizzabili può essere incrementato fino al 400% da cofinanziamenti nazionali o regionali.
Fra gli altri vincoli per l’utilizzo, vi sono quelli che prevedono che almeno il 37% di tali fondi sia destinato alle misure ambientali e il 55% agli investimenti per le start-up, ai giovani agricoltori e per gli investimenti in azienda che contribuiscono a una ripresa resiliente, sostenibile e digitale.
L’accesso a queste misure deve essere garantito indipendentemente dalle dimensioni aziendali e dal livello di formazione degli agricoltori interessati. Il grado di copertura degli investimenti da parte dell’ente pubblico potrà arrivare al 75% (rispetto al 40% attuale). Infine il premio di insediamento potrà essere aumentato fino a 100.000 euro.
Opportunità e rischi
Si tratta di un intervento molto ambizioso che oltre a mettere a disposizione ingenti fondi prosegue nella direzione di rinazionalizzare, almeno in parte, la politica economica nel settore primario. Tale maggiore libertà di azione concessa agli Stati se da un lato consente di rispondere meglio alle esigenze locali, dall’altro rischia di introdurre elementi distorsivi della competitività delle aziende agricole in funzione delle aree in cui queste sono insediate. Infatti, non si tratta solo di poter usufruire di maggiori o minori contributi in funzione della capacità e/o volontà dello Stato o della Regione di appartenenza, di stanziare somme più o meno rilevanti a integrazione dei fondi europei.
I possibili interventi sono definiti (e non poteva che essere così) in termini generali. Tradurli in azioni specifiche non è un esercizio neutrale.
La capacità a livello nazionale e/o regionale di individuare azioni adeguate al contesto in cui si opera diventa determinante. In questo quadro non è sufficiente, da sola, una forte volontà politica, è necessario poter contare su conoscenze approfondite e basi scientifiche adeguate. Tutti i temi collegati con l’ambiente si prestano a essere interpretati in maniera diversa e, a volte, anche antitetica. Ad esempio se parliamo di zootecnia ed effetto serra, per ridurre quest’ultimo opinione comune è che sia opportuno orientarsi su allevamenti estensivi o semi-intensivi. Tuttavia un numero abbastanza ampio di studi dimostra che il carbonio emesso per litro di latte prodotto si riduce aumentando la produttività per capo.
Per aumentare la compatibilità ambientale è opportuno, allora, incrementare la specializzazione oppure, al contrario, puntare su allevamenti estensivi? Al tempo stesso è opportuno tener conto solo dell’effetto serra o anche di altre esternalità quali, ad esempio, l’influenza sulla biodiversità, il paesaggio, il contributo all’identità locale? E ancora, in che misura influiscono le caratteristiche dell’ambiente locale in queste scelte? La risposta per essere credibile deve poter contare sul supporto di adeguate ricerche e non per tutti gli ambienti e tutte le produzioni potenziali queste sono disponibili. Infine vi sono le distorsioni conseguenti la diversa capacità di gestire la macchina amministrativa da parte dei territori.
In definitiva si aprono possibilità interessanti, ma vi è il rischio che senza un’adeguata gestione la perdita di competitività del settore primario italiano nei confronti di quelli di altri Paesi o di qualche regione nei confronti di altre regioni, diventi una realtà. Adeguata gestione che richiede una partecipazione attiva da parte di tutti gli operatori che, in qualche misura, direttamente o indirettamente appartengono al settore agroalimentare italiano.
Geremia Gios
Università di Trento
Opinione pubblicata su L’Informatore Agrario n. 40/2020



