La Pac e la svolta verde dell’Unione europea

L’Opinione di Fabrizio De Filippis

Filippo De FilippisIn un editoriale di luglio il direttore Antonio Boschetti, riferendosi alla strategia A Farm to Fork, ha ricordato come su di essa il dibattito si divida tra due posizioni estreme: da un lato c’è chi la considera una minaccia, o addirittura una follia; dall’altro, c’è chi pensa sia una grande opportunità. Una polarizzazione analoga caratterizza le posizioni sulla svolta verde che la Commissione europea intende imprimere alla Pac nel quadro del Green Deal, di cui la strategia A Farm to Fork è una delle declinazioni che più interessano l’agricoltura.

Personalmente credo che la posizione più ragionevole sia intermedia, giusto un po’ sbilanciata verso il cambiamento. In particolare, guardando alla storia della Pac, le tante «riforme» di cui è stata oggetto si possono leggere come la necessità di adeguarsi di volta in volta a nuove sfide economiche e politiche: l’esigenza di inglobare in una politica settoriale lo sviluppo territoriale delle aree rurali, con la nascita del Secondo pilastro; la liberalizzazione commerciale e le regole del Gatt/Wto, con le diverse «scatole» dei sussidi; la dimensione ambientale, con misure di accompagnamento e la condizionalità; il disaccoppiamento delle riforme MacSharry e Fischler; lo «spacchettamento» dei pagamenti diretti e la forte enfasi sul greening.

Nella maggioranza dei casi le sfide sono state raccolte con molta, talvolta troppa, cautela e la Pac è stata criticata per il suo immobilismo e la sua incapacità di rinnovarsi: in effetti, le sue riforme si sono tradotte in una miscela di (molta) conservazione e (poco) cambiamento, nel senso che la ricetta è sempre stata quella di fare il minimo di cambiamenti necessari per gestire le sfide del momento. Tuttavia, se si guarda alla Pac di oggi rispetto a quella di venti o trent’anni fa, ci si rende conto di quanto sia diversa e di quanto profondo sia stato l’effetto cumulativo dei suoi piccoli cambiamenti incrementali. Tutto ciò non è sorprendente e nemmeno disdicevole, perché le riforme e le nuove politiche non si calano nel nulla e, per così dire, non si scrivono su una pagina bianca; piuttosto, sono modifiche di politiche esistenti, alla cui difesa legittimamente lavorano i portatori di interesse che da esse traggono vantaggio e gli stessi policy maker che a esse sono abituati.

Dunque, il recepimento nella nuova Pac della svolta verde della Commissione UE sarà il risultato di un processo già visto, con la solita miscela di conservazione e cambiamento, della quale sarebbe ingenuo scandalizzarsi. Tuttavia, oggi ci sono novità importanti che potrebbero introdurre nella miscela dosi di cambiamento maggiori rispetto al passato.

Innanzitutto, la Commissione stavolta fa sul serio, perché sulla svolta verde si gioca la sua credibilità. In secondo luogo, le risorse finanziarie messe in campo sono ingenti, per cui è lecito aspettarsi che vi siano forti incentivi a comportamenti virtuosi e che la Commissione intenda condizionare l’allocazione dei fondi all’effettivo perseguimento degli obiettivi dichiarati. In terzo luogo, l’avvio della nuova Pac è stato spostato a gennaio 2023.

Sarebbe ingenuo (forse anche azzardato) aspettarsi una vera rivoluzione verde: molti cambiamenti saranno «cosmetici», con una sorta di «green washing» di vecchie misure, ma nel mondo dopo-Covid è lecito spingere per una strategia coraggiosa. D’altra parte, i due anni da qui al gennaio 2023 danno tempo per rispondere in positivo alle sfide della transizione verde, consentendo all’agricoltura di candidarsi come settore leader.

Per l’Italia la sfida è accentuata dal fatto che la nuova Pac va applicata nel quadro di un Piano strategico nazionale, che avrà il grande problema di coordinare e mettere d’accordo le Regioni: a voler essere ottimisti, si può sperare che una strategia nazionale sul Green Deal – concepita per difendersi insieme dalle sue minacce e sfruttare le sue tante opportunità – potrebbe essere la chiave di volta per convincere le Amministrazioni regionali a cedere po’ di sovranità in favore di un maggiore coordinamento.


Fabrizio De Filippis
Università Roma Tre