L’Opinione di Corrado Giacomini
Come ha scritto Ermanno Comegna (L’Informatore Agrario n. 37/2020, pag. 11), forse ci siamo al recepimento della direttiva sulle pratiche sleali in agricoltura. Forse ci siamo, perché è stata inserita nella legge delega al Governo con cui a fine anno lo Stato italiano cerca di sanare i ritardi nel recepimento delle direttive comunitarie. Ora deve essere approvata dalla Camera e poi, finalmente, il Governo con decreto delegato renderà operative le norme arricchite da altre misure previste nella legge delega (art. 7).
Non mi soffermo sulle misure della direttiva, ma su altre aggiunte dalla legge delega. Era ora, come fa la legge, di vietare le aste a doppio ribasso e chiedere la revisione della disciplina delle vendite sottocosto dei prodotti freschi e deperibili, che è un utile strumento di commercializzazione, ma non deve diventare un onere a carico del solo fornitore. Si potrebbe dire che il filo conduttore della legge è la disciplina della formazione del prezzo, ponendo come limite il livello del costo di produzione.
Un problema finora mai risolto è la debolezza del produttore agricolo nei rapporti di mercato, tema oggi particolarmente sentito perché poche catene della gdo concentrano larga parte delle vendite. Dopo tanti tentativi di organizzare l’offerta agricola per aumentare la sua forza contrattuale, sia nel nostro Paese sia in altri dell’UE è parso che la soluzione sia quella di ancorare il prezzo contrattato al costo di produzione.
Proprio su L’Informatore Agrario (n. 28-29/2019, pag. 28) ho presentato l’art. 10-quater della legge 21 maggio 2019, n. 44, che stabilisce che il pagamento da parte dell’acquirente di un prezzo «significativamente» inferiore al costo medio di produzione, calcolato dall’Ismea, costituisce una pratica commerciale sleale, con sanzione fino al 10% del fatturato. Confrontavo questa decisione, accolta in un solo articolo, con la legge francese del 30 ottobre 2018 «Pour l’équilibre des relations commerciales dans le secteur agricole et alimentaire et une alimentation saine, durable et accessible à tous» che ha introdotto anch’essa il criterio del prezzo «abusivamente basso», come misura a tutela del fornitore.
Tante buone intenzioni
La prima osservazione è che nessuno finora, dopo più di un anno, ha richiesto l’applicazione di quell’articolo, anche perché il ricorso all’Antitrust era possibile solo se mancava nel contratto scritto almeno una delle condizioni dell’art. 168 del regolamento 1308/2013, vale a dire: prezzo, quantità, qualità, modalità di consegna, norme a tutela dei casi di forza maggiore, praticamente tutte condizioni essenziali. Nemmeno il Mipaaf ha fissato le modalità per il calcolo del costo medio di produzione e neppure l’Ismea si è preoccupata di cominciare a calcolarlo. Quale costo medio? Dell’azienda interessata, a livello regionale, nazionale, per varietà, per razza?
Insomma, calcolare il costo medio di un prodotto non è difficile, ma bisogna che siano chiari i criteri a cui attenersi. Per fortuna nella nuova legge è scritto che il prezzo fissato al di sotto del 15% del costo medio di produzione (quale?), calcolato da Ismea, è da considerare solo come «parametro di controllo» della sussistenza della pratica sleale. Insomma, tutto viene rimandato al giudizio dell’Autorità antitrust o dell’Ispettorato centrale della tutela della qualità e della repressione frodi dei prodotti agroalimentari (Icqrf), che la legge inserisce come altra autorità nazionale di contrasto.
Aggiungo che l’Autorità garante della concorrenza francese si è espressa negativamente sul fatto di legare la definizione di prezzo «abusivamente basso» al costo medio di produzione, e recentemente un rapporto del Senato francese afferma che nel primo anno di applicazione della legge la ricaduta a favore degli agricoltori è stata quasi inesistente.
Certamente nella proposta di ancorare il prezzo al costo medio di produzione ci sono tante buone intenzioni, ma temo che non si andrà oltre.
Corrado Giacomini
Università di Parma
Opinione pubblicata su L’Informatore Agrario n. 39/2020