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Ricerca pubblica, l’agricoltura chiede più
concretezza |
Il sostegno pubblico della ricerca dovrebbe essere sottoposto a severe
procedure di valutazione, in modo da subordinare il finanziamento ai
risultati conseguiti e consolidare così l’attuale ruolo complementare a
quello della ricerca privata
Il mondo agricolo sta cambiando a tal punto che ora si discute anche
sull’opportunità di cambiare nome alle Facoltà di agraria. In una
Università, la Facoltà è l’istituzione che governa la funzione didattica. In
essa sono attivate le lauree di primo e secondo livello. La ricerca è
gestita dai Dipartimenti, ma nel senso comune la Facoltà rimane il luogo
universitario per eccellenza. Perché cambiarne il nome?
Alcuni vedono bene «Scienze agrarie e dell’alimentazione», altri
aggiungerebbero «dell’ambiente», altri ancora «del territorio».
La ragione di questo fermento nominalistico è che il settore primario, negli
ultimi decenni, è sceso progressivamente di importanza, in termini di
ricchezza prodotta e di addetti. Di conseguenza, anche la domanda di alta
formazione nel settore agricolo è andata diminuendo. Parimenti, sono
aumentati di importanza alcuni comparti collegati, in linea con l’espansione
della multifunzionalità dell’agricoltura: per l’appunto, trasformazione
alimentare, turismo, ambiente, territorio.
Ma l’attrattività delle Facoltà di agraria, nonostante i recenti sforzi di
inserire corsi di laurea innovativi, non è risalita come sperato. Un
problema serio, connesso con il precedente, è che anche i fondi pubblici per
la ricerca agraria stanno diminuendo in modo continuo, fin dalla fine degli
anni 80, periodo aureo del sostegno pubblico nella Ricerca & Sviluppo del
settore.
C’è ancora bisogno di ricerca pubblica in agricoltura?
La ricerca porta innovazione e questa è fondamentale per recuperare
competitività e imporsi sui mercati. Ma le imprese agricole presentano
strutture deboli e non possono permettersi di investire in ricerca. I
fornitori di mezzi tecnici, soprattutto le multinazionali, producono
continuamente innovazioni per l’agricoltura, ma esse si concentrano in
particolare su quelle i cui benefici sono più appropriabili sul piano
commerciale. Per questo, il sostegno pubblico in R&S è ancora necessario.
Peraltro, appare anche conveniente, a giudicare dai lusinghieri rendimenti
economici dei progetti pubblici di ricerca agricola. In certi casi, si
arriva a stimare tassi annui anche superiori al 100% dell’investimento.
Talora le stime sono un po’ ottimistiche, poiché assegnano tutto il merito
ai finanziamenti pubblici diretti, omettendo il contributo di altre fonti
indirette. Ma in tanti casi la convenienza è ampiamente verificata.
Tuttavia, l’esistenza del sostegno non è una condizione sufficiente per il
successo. Ciò che conta oggi è la qualità della spesa. Per questo, in un
momento come quello attuale, caratterizzato da continui tagli ai fondi
pubblici e da campagne che tendono a screditare l’Università, gli operatori
delle istituzioni della ricerca agricola italiana dovrebbero essere
impegnati nell’introduzione di severe procedure di valutazione, volte a
subordinare il finanziamento ai risultati conseguiti.
Inoltre, oggi sappiamo che la capacità di utilizzare con profitto
l’innovazione dipende in forte misura da abilità pregresse delle aziende
adottanti, che sono conseguibili solo con una convinta partecipazione alle
sperimentazioni. «Fare ricerca» non solo aiuta a produrre nuova conoscenza,
ma anche a tradurla tempestivamente in forme utili per l’impresa. Perciò,
occorre che l’innovazione sia realizzata garantendo un concreto dialogo tra
pubblico e privato assicurando una reale compartecipazione delle aziende nel
trasferimento.
Il sistema pubblico della ricerca agraria può scegliere tra tre percorsi
strategici: ambire alla leadership, producendo innovazioni e imponendosi
nella competizione con il mondo privato e gli altri Paesi; consolidare
l’attuale ruolo complementare, ma in modo reattivo, assorbendo l’innovazione
proveniente dall’esterno con l’adattamento; accettare la subalternità e
accontentarsi della tecnologia prodotta altrove.
La prima via, che è quella indicata dall’Ue a Lisbona, richiede forti
investimenti e un impegno costante per la qualità. La seconda è più alla
nostra portata: consente alcune economie, ma non permette errori di
programmazione, soprattutto di sovrapposizione tra ricerca pubblica e
privata. La terza è l’opzione perdente, che porta al declino.
Così come perdente sarebbe cambiare il nome della Facoltà solo per un
furbesco espediente di marketing. Consentitemi una piccola provocazione.
Alle denominazioni già riportate, io preferirei «Facoltà di ingegneria
agroalimentare». Non tanto per aumentare il peso della Meccanica o delle
Costruzioni, quanto per indicare profili di studio e professione basati su
serietà, rigore e concretezza: sul piano, appunto, di quelli degli
ingegneri.
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