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L'Europa dimentica il mercato dell'olio |
Le normative europee non sono adeguate
Mentre i prezzi dell’olio d’oliva fanno registrare un
calo, dovuto anche alle buone produzioni, i consumatori dimostrano di
apprezzare sempre più l’olio di qualità. Peccato che l’Ue non dia ai
produttori gli strumenti adatti per sfruttare al meglio questa opportunità
Dopo un anno vissuto alla grande, la crescita
dei prezzi del comparto dell’olio di oliva sembra rallentare la propria
corsa, con una brusca diminuzione di quasi il 20% rispetto ai valori toccati
nella scorsa estate.
A cosa si deve questa inversione di tendenza? Si tratta di un dato
strutturale o congiunturale?
Qualche commentatore sostiene che il ritorno della Spagna a un’annata di
carica dopo due campagne negative e le buone raccolte in altri Paesi del
Mediterraneo (in particolare Siria e Turchia), nonché la sostanziale tenuta
della produzione nazionale (vedi tabella) hanno aumentato l’offerta
mondiale (+8,5%) facendo così scivolare al ribasso i prezzi per tutte le
categorie di qualità dell’olio. Le quotazioni dell’extravergine sono scese,
sulla piazza di Bari, a meno di 3,20 euro/kg, mentre il lampante sulle
principali piazze di Calabria e Puglia è contrattato a circa 2 euro/kg.
Secondo i dati recentemente forniti dal Coi (Consiglio oleicolo
internazionale) e presentati a Madrid a fine novembre vi è tuttavia un
sostanziale equilibrio intorno a un valore di 2,8 milioni di tonnellate tra
l’offerta e una domanda in forte crescita soprattutto nei nuovi Paesi
consumatori.
Considerato questo trend è ragionevole attendersi una stabilizzazione del
mercato e una ripresa nei prossimi mesi.
Premiata la qualità
È interessante osservare le mosse dei diversi soggetti della filiera
attualmente molto cauti nella politica degli acquisti. Così come va
registrata una maggiore disponibilità della grande distribuzione per azioni
di non svilimento del prodotto, limitando le pressioni promozionali per
sostituirle con spazi e iniziative dedicate ai segmenti di eccellenza: dop,
igp, biologico, 100% italiano, monovarietale, denocciolato, ecc.
La grande distribuzione si è infatti accorta, secondo i dati Ismea-AcNielsen
Homescan, che nello scorso anno, a fronte di un aumento dei prezzi, il
volume delle vendite è sì diminuito (–2,5%), ma è altrettanto vero che è
aumentato il giro di affari (+10,8%) e che il consumatore è particolarmente
attento a una segmentazione della qualità. Ad esempio nello scorso anno è
cresciuto in maniera impressionante il segmento del biologico, che ha
presentato un aumento del 28,3% in volume e del 47,4% in valore.
Il diverso atteggiamento della grande distribuzione risente anche dei
principi contenuti in una recente sentenza emessa dalla Corte di giustizia
europea che rende corresponsabile il distributore sulla veridicità dei
contenuti delle etichette dei prodotti messi in vendita. Un’indicazione
errata può infatti comportare una sanzione amministrativa di varie migliaia
di euro.
L’attenzione del consumatore verso la qualità appare evidente nell’autentico
crollo (–44% in volume e –26% in valore) degli acquisti di olio di sansa, il
prodotto di più bassa qualità di tutta la categoria.
Più attenzione ai controlli
Un dato interessante, recentemente diffuso dalla Cia, è stato che nonostante
gli aumenti del prezzo del prodotto nello scorso anno, le esportazioni
italiane sono volate, specie verso Stati Uniti, Giappone e Cina. Meno volumi
ma più fatturato. Il fatidico muro del miliardo di euro è stato abbattuto
con un aumento in termini di valore del 20%. Segno di un consumatore, anche
a livello internazionale, capace di comprendere le qualità e i valori
nutrizionali, organolettici e salutistici del prodotto. Un consumatore
attento, che cerca qualità e vuole conoscere l’identità e la storia del
prodotto. E che deve essere tutelato.
Per questo va accolto favorevolmente il piano straordinario dei controlli
preannunciato dall’Ispettorato centrale repressione delle frodi, su diretto
incarico del ministro Paolo De Castro. Il programma prevede di investigare a
fondo nel settore dell’olio accogliendo le richieste della parte agricola.
Sono state opportunamente identificate alcune aree di rischio e alcuni
territori da presidiare.
In particolare i controlli riguarderanno alcune aree strategiche del sistema
olivicolo italiano come Puglia, Sicilia, Calabria, Toscana e Umbria.
Un intervento capillare sarà effettuato in collaborazione con l’Agenzia
delle dogane nei porti di ingresso dei prodotti oleari. Infine i controlli
avverranno anche nei centri di produzione e commercializzazione degli oli e
in particolare in quella miriade di strutture (oltre 900 stabilimenti) oggi
impegnati nella produzione di un presunto olio made in Italy che ha però
solo il «piccolo» problema di essere composto prevalentemente da deodorato
spagnolo e di essere venduto a prezzi estremamente bassi presso i canali
della grande distribuzione.
Non è un caso che diverse raffinerie abbiano deciso di chiudere la propria
attività.
Le carenze dell’Europa
È indubbio che il settore dell’olio di oliva stia vivendo una stagione di
grande intensità con un’arena sempre più competitiva nella quale i diversi
Sistemi Paese si devono confrontare.
Ma proprio perché assistiamo a una sfida globale è opportuno soffermarsi
sulle regole di governance del settore.
L’impressione è che l’Unione Europea, che pur riveste un ruolo fondamentale
di leadership mondiale del settore, abbia negli ultimi anni abdicato al
proprio ruolo di gestione del mercato.
Lo dimostrano almeno le tre scelte seguenti.
Qualità. Appare evidente a tutti come il regolamento 1019/2002 sia
inadeguato. Non è possibile mancare di rispetto al consumatore non
offrendogli la trasparenza che ricerca. L’indicazione in etichetta
dell’origine delle olive deve essere resa obbligatoria. Così come per il
mercato europeo deve essere vietata la fabbricazione e la
commercializzazione delle miscele. Gravissimo appare il ritardo sul
riconoscimento delle metodiche analitiche per lo smascheramento delle frodi
soprattutto nei confronti degli oli deodorati e di quelli dove è presente
l’olio di nocciola.
Promozione. L’Unione Europea ha di fatto congelato le attività del
Coi, ma appare fondamentale riprendere un’iniziativa rivolta soprattutto
verso i mercati terzi dove sia presentato il binomio qualità-contributi
salutistici dell’olio extravergine di oliva.
Organizzazione di mercato. La nuova ocm varata in particolare
con i regolamenti 865/04 e 2080/05 appare del tutto inadeguata a sorreggere
lo sforzo di crescita, aggregazione e competitività dell’olivicoltura
europea in generale e di quella italiana in particolare.
Manca, infatti, nella nuova normativa tutta la parte concernente il mercato.
Se ne sono accorti, nello scorso mese di novembre, i partecipanti all’ultima
riunione del Comitato consultivo materie grasse che si è arenato sulle
misure di tutela in caso di abbassamento dei prezzi e che ha lungamente
discusso circa l’affidabilità delle informazioni statistiche del settore e
sul ruolo dei soggetti della filiera.
La Commissione si è drasticamente chiamata fuori dimenticando però che nel
caso dell’olio la riforma appena varata manca di un pezzo importante: quello
relativo all’organizzazione di mercato, presente invece in altre ocm. Così
come sul miglioramento delle condizioni di competitività dell’olivicoltura
europea si sono stabiliti paletti inverosimili, ad esempio i divieti,
presenti nel regolamento 2080/05 relativo ai piani triennali degli
operatori, di finanziare programmi di attività che prevedono di far crescere
la produzione o di razionalizzare le strutture di trasformazione.
Come può un Paese come l’Italia accettare un simile divieto avendo una
struttura produttiva estremamente antiquata e una miriade di frantoi che
devono poter crescere e razionalizzarsi?
Come i cani che abbaiano alla luna, i dibattiti e i programmi
sull’utilizzazione degli impianti intensivi e superintensivi sembrano non
riguardare la Commissione Ue. Sarebbe interessante chiedere agli
olivicoltori italiani che hanno impiantato, secondo i dati forniti dalle
organizzazioni dei vivaisti, oltre 10 milioni di piante negli ultimi tre
anni se hanno provveduto a spiantare analoghe piantagioni o se hanno
acquisito elementi informativi da parte degli uffici urbanistici del
territorio sullo sviluppo di lottizzazioni in aree agricole che hanno
comportato l’abbattimento di oliveti.
L’elemento sconcertante, soprattutto, è nella definizione dei soggetti della
filiera.
Le organizzazioni degli operatori disegnate dalla Comunità sono libellule
nella tempesta. Soggetti troppo deboli, che addirittura non devono avere
strutture e risorse professionali proprie per affrontare il mercato.
Persino in Spagna l’organizzazione interprofessionale – secondo le
affermazioni rilasciate in due interviste sull’autorevole Mercacei
Magazin dal presidente dell’associazione spagnola degli esportatori (Asoliva),
Juan Gomez Moya, e dal presidente del comitato consultivo del Coi, Francisco
Molina – appare in coma profondo. Né migliore situazione può essere
descritta per l’Italia o per la Grecia.
Non esistono dunque norme, nell’attuale ocm, che possano agevolare i
fondamentali rapporti di filiera. Vi è la necessità di ragionare al più
presto su un ridisegno degli organismi economici, sulle regole di filiera e
sull’abbattimento di ogni muro che si frappone alla crescita, allo sviluppo
e al successo del settore.
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