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L'Informatore Agrario

Sommario rivista

Approfondimento

   
48
 8-14 Dic.

  2006
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Attualità PRIMA PAGINA

L'ocm zucchero perde già i colpi

L’Italia non può sopportare ulteriori tagli

Al secondo anno di applicazione le nuove regole pensate per ridurre la produzione europea si rivelano inefficaci e il commissario Mariann Fischer Boel minaccia un giro di vite. Per la bieticoltura italiana si tratterebbe del colpo di grazia

La riforma del regime comunitario dello zucchero ha tra i suoi scopi quello di concentrare la produzione europea nelle aree e nelle imprese più competitive, con una riduzione complessiva di 6 milioni di tonnellate.
Tale obiettivo è perseguito attraverso il meccanismo del regime temporaneo di ristrutturazione, basato sulla messa in moto di un Fondo, finanziato dal mercato (cioè dai consumatori), a cui le imprese saccarifere possono cedere la propria quota ricevendone in cambio un importo elevato, pari a 730 euro alla tonnellata, sempreché rispettino alcuni vincoli, primo tra tutti la chiusura delle fabbriche cui fa riferimento la quota ceduta.
Il regime di ristrutturazione cesserà nel 2010: dunque le società interessate devono programmare oggi le loro scelte in vista di tale scadenza, tenendo conto di aspetti economicamente rilevanti quale la riduzione progressiva dei 730 euro a partire dal 2008 e il fatto che la quota, diversamente dal passato, genererà comunque oneri anche se non prodotta.
Inoltre, dopo il 2010 vi sarà la piena liberalizzazione delle importazioni dai Paesi meno avanzati (Pma), che renderà il mercato europeo privo di protezione.
In sintesi: gli operatori industriali dispongono di tutti i riferimenti per decidere se continuare l’attività oppure optare per un congruo indennizzo chiudendo l’attività stessa.
Passando dalla teoria alla pratica, i fatti stanno dando però solo parziale soddisfazione alle strategie di Bruxelles.
Il primo anno del nuovo regime, il 2006, ha registrato infatti una revoca di quote per 1,5 milioni circa di tonnellate (1,15 di zucchero e 0,35 di inulina), mentre nel 2007 le domande di cessione degli operatori raggiungeranno appena 0,6 milioni di tonnellate, cifra che appare modesta anche se bisognerà aspettare il 1° febbraio, scadenza entro la quale gli operatori potranno presentare allo Stato membro le domande per il 2007, per avere il quadro definitivo.
Di qui l’irritazione, all’ultimo Consiglio agricolo, del commissario Mariann Fischer Boel (vedi L’Informatore Agrario n. 46/2006, pag. 18) preoccupata del forte divario tra l’obiettivo dei 6 milioni di tonnellate da ritirare e le prospettive inferiori desumibili da questo scorcio di riforma.
L’intervento del commissario è stato minaccioso e ha prefigurato l’estremo rimedio di un «giro di vite» sulla quota, con taglio lineare tra tutti gli operatori. Secondo calcoli ancora provvisori, il ritiro potrebbe raggiungere nel 2007 il 15%.
Nel n. 39 di questa rivista si era paventata l’ipotesi che il giro di vite avrebbe potuto trovare applicazione già nell’ottobre 2006, nella misura del 6% circa, aggiuntivo a quello del 14% stabilito a marzo, sempre per il 2006. La Commissione Ue decise però di non farne niente.
I fondamentali per una decisione si sono tuttavia aggravati, rendendo pressoché inevitabile l’intervento restrittivo della Commissione per il 2007.
A differenza del taglio anticipato deciso nel marzo 2006, questa volta l’Italia difficilmente potrà farla franca. Il che apre un grave problema sul fronte interno.
Le imprese saccarifere del nostro Paese (con la sola eccezione del Molise) hanno ceduto nel 2006 al Fondo comunitario il 52,9% della propria quota e hanno chiuso complessivamente 13 zuccherifici, in tal modo attivando gli aiuti temporanei previsti dalla riforma (accoppiati, di Stato e di diversificazione regionale).
I sei zuccherifici rimasti in attività devono sulla carta produrre mediamente intorno alle 120-130.000 t ciascuno, utilizzando a pieno la quota nazionale oggi a disposizione. Se però la quota dovesse essere ridotta, prima in termini provvisori e, dopo il 2010, in termini definitivi, il target produttivo sarebbe in prospettiva compromesso, squilibrando i costi e i budget delle società. La materia è assai delicata per due motivi.
In primo luogo, le nostre imprese hanno impostato il proprio progetto di recupero competitivo su margini di guadagno limitati: modifiche ai parametri economici utilizzati nei calcoli previsionali potrebbero ridurre talmente i margini da richiamare l’opportunità di una revisione delle scelte strategiche, soprattutto per le imprese in situazione più critica.
La seconda considerazione riguarda lo Stato, che sta impegnando risorse rilevanti per il settore (65,8 milioni di euro all’anno per i primi 5 anni) per sostenere l’attività delle 6 fabbriche rimaste. Lo ha fatto in nome di un progetto di recupero di competitività e di un consolidamento della filiera sul quale il problema del taglio della quota irrompe in termini pesanti.
Di fronte al rischio di non realizzare il progetto, l’unico rimedio sembra essere quello di sollevare una decisa posizione italiana a Bruxelles da parte del ministro Paolo De Castro, che per ora si è limitato a replicare al commissario agricolo evidenziando come l’Italia abbia già dato il maggiore contributo al riequilibrio tra domanda e offerta nell’ Ue: di 1,15 milioni di quota ritirati nel 2006, in Europa, ben 0,78 sono italiani.
I tagli futuri, se scatteranno, non devono pertanto riguardare l’Italia, che non può essere chiamata a pagare ulteriori contributi in termini solidali.

 

Sommario rivista

Carlo Biasco



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