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L'ocm zucchero perde già i colpi |
L’Italia non può sopportare ulteriori tagli
Al secondo anno di applicazione le nuove regole pensate
per ridurre la produzione europea si rivelano inefficaci e il commissario
Mariann Fischer Boel minaccia un giro di vite. Per la bieticoltura italiana
si tratterebbe del colpo di grazia
La riforma del regime comunitario dello zucchero ha tra i
suoi scopi quello di concentrare la produzione europea nelle aree e nelle
imprese più competitive, con una riduzione complessiva di 6 milioni di
tonnellate.
Tale obiettivo è perseguito attraverso il meccanismo del regime temporaneo
di ristrutturazione, basato sulla messa in moto di un Fondo, finanziato dal
mercato (cioè dai consumatori), a cui le imprese saccarifere possono cedere
la propria quota ricevendone in cambio un importo elevato, pari a 730 euro
alla tonnellata, sempreché rispettino alcuni vincoli, primo tra tutti la
chiusura delle fabbriche cui fa riferimento la quota ceduta.
Il regime di ristrutturazione cesserà nel 2010: dunque le società
interessate devono programmare oggi le loro scelte in vista di tale
scadenza, tenendo conto di aspetti economicamente rilevanti quale la
riduzione progressiva dei 730 euro a partire dal 2008 e il fatto che la
quota, diversamente dal passato, genererà comunque oneri anche se non
prodotta.
Inoltre, dopo il 2010 vi sarà la piena liberalizzazione delle importazioni
dai Paesi meno avanzati (Pma), che renderà il mercato europeo privo di
protezione.
In sintesi: gli operatori industriali dispongono di tutti i riferimenti per
decidere se continuare l’attività oppure optare per un congruo indennizzo
chiudendo l’attività stessa.
Passando dalla teoria alla pratica, i fatti stanno dando però solo parziale
soddisfazione alle strategie di Bruxelles.
Il primo anno del nuovo regime, il 2006, ha registrato infatti una revoca di
quote per 1,5 milioni circa di tonnellate (1,15 di zucchero e 0,35 di
inulina), mentre nel 2007 le domande di cessione degli operatori
raggiungeranno appena 0,6 milioni di tonnellate, cifra che appare modesta
anche se bisognerà aspettare il 1° febbraio, scadenza entro la quale gli
operatori potranno presentare allo Stato membro le domande per il 2007, per
avere il quadro definitivo.
Di qui l’irritazione, all’ultimo Consiglio agricolo, del commissario Mariann
Fischer Boel (vedi L’Informatore Agrario n. 46/2006, pag. 18)
preoccupata del forte divario tra l’obiettivo dei 6 milioni di tonnellate da
ritirare e le prospettive inferiori desumibili da questo scorcio di riforma.
L’intervento del commissario è stato minaccioso e ha prefigurato l’estremo
rimedio di un «giro di vite» sulla quota, con taglio lineare tra tutti gli
operatori. Secondo calcoli ancora provvisori, il ritiro potrebbe raggiungere
nel 2007 il 15%.
Nel n. 39 di questa rivista si era paventata l’ipotesi che il giro di vite
avrebbe potuto trovare applicazione già nell’ottobre 2006, nella misura del
6% circa, aggiuntivo a quello del 14% stabilito a marzo, sempre per il 2006.
La Commissione Ue decise però di non farne niente.
I fondamentali per una decisione si sono tuttavia aggravati, rendendo
pressoché inevitabile l’intervento restrittivo della Commissione per il
2007.
A differenza del taglio anticipato deciso nel marzo 2006, questa volta
l’Italia difficilmente potrà farla franca. Il che apre un grave problema sul
fronte interno.
Le imprese saccarifere del nostro Paese (con la sola eccezione del Molise)
hanno ceduto nel 2006 al Fondo comunitario il 52,9% della propria quota e
hanno chiuso complessivamente 13 zuccherifici, in tal modo attivando gli
aiuti temporanei previsti dalla riforma (accoppiati, di Stato e di
diversificazione regionale).
I sei zuccherifici rimasti in attività devono sulla carta produrre
mediamente intorno alle 120-130.000 t ciascuno, utilizzando a pieno la quota
nazionale oggi a disposizione. Se però la quota dovesse essere ridotta,
prima in termini provvisori e, dopo il 2010, in termini definitivi, il
target produttivo sarebbe in prospettiva compromesso, squilibrando i costi e
i budget delle società. La materia è assai delicata per due motivi.
In primo luogo, le nostre imprese hanno impostato il proprio progetto di
recupero competitivo su margini di guadagno limitati: modifiche ai parametri
economici utilizzati nei calcoli previsionali potrebbero ridurre talmente i
margini da richiamare l’opportunità di una revisione delle scelte
strategiche, soprattutto per le imprese in situazione più critica.
La seconda considerazione riguarda lo Stato, che sta impegnando risorse
rilevanti per il settore (65,8 milioni di euro all’anno per i primi 5 anni)
per sostenere l’attività delle 6 fabbriche rimaste. Lo ha fatto in nome di
un progetto di recupero di competitività e di un consolidamento della
filiera sul quale il problema del taglio della quota irrompe in termini
pesanti.
Di fronte al rischio di non realizzare il progetto, l’unico rimedio sembra
essere quello di sollevare una decisa posizione italiana a Bruxelles da
parte del ministro Paolo De Castro, che per ora si è limitato a replicare al
commissario agricolo evidenziando come l’Italia abbia già dato il maggiore
contributo al riequilibrio tra domanda e offerta nell’ Ue: di 1,15 milioni
di quota ritirati nel 2006, in Europa, ben 0,78 sono italiani.
I tagli futuri, se scatteranno, non devono pertanto riguardare l’Italia, che
non può essere chiamata a pagare ulteriori contributi in termini solidali.
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