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Agroalimentare, ricerca pubblica ancora
strategica |
La prevalenza nel settore di piccole aziende che non possono
distribuire i rischi degli investimenti in ricerca su ampie gamme di
prodotti legittima l’intervento dello Stato per creare l’innovazione
necessaria allo sviluppo di nuovi prodotti
Amar Bidhé, autorevole economista della Columbia University,
ha recentemente avanzato la tesi che lo sviluppo di un Paese non si deve
tanto alla «produzione» di tecnologia (ciò che si realizza con la Ricerca e
Sviluppo, il cosiddetto R&S), quanto al suo consumo.
In altre parole, sarebbero i consumatori di innovazione che «tirano»
l’economia del Paese e non già i ricercatori che la «spingono».
Si tratta di un’opinione abbastanza sorprendente, in quanto controcorrente
rispetto all’idea, molto diffusa in Europa, che il progresso di una Nazione
sia intimamente legato alla capacità di produrre innovazione tecnologica.
Del resto, è su questa idea che si fonda la «Strategia di Lisbona», mediante
la quale l’Unione Europea intende promuovere la «società della conoscenza»
con investimenti in R&S e alta tecnologia.
In particolare, Bidhé trae le seguenti implicazioni per imprese e
governanti:
- abbandonare gli atteggiamenti «tecno-feticisti» e «tecno-nazionalisti»;
- evitare gli eccessi nelle spese in R&S e nelle assunzioni degli attori
principali del sistema innovativo, cioè ricercatori, ingegneri e tecnologi;
- rivalutare il ruolo degli attori minori, ovvero gli operatori a valle del
sistema, come venditori, pubblicitari, marketers, che sono quelli che
tengono alta presso i consumatori la disponibilità ad acquistare i nuovi
prodotti. A prima vista, la congettura dell’economista americano può
apparire controintuitiva, ma è il caso di prenderla sul serio, in quanto è
ben argomentata, soprattutto se calata in un contesto molto globalizzato
come quello statunitense.
In ogni caso, vista la complessità, sarebbe errato sia rigettarla in modo
acritico, sia generalizzarla sbrigativamente.
Potremmo scherzosamente insinuare che la tesi di Bidhé è stata presa fin
troppo sul serio dai governanti italiani. Infatti, da qualche anno,
l’università e la ricerca sono state oggetto di drammatici tagli finanziari,
che ne stanno mettendo a dura prova le capacità di sopravvivenza. Dopo i
salassi del Governo precedente, anche l’ultima legge finanziaria,
attualmente in fase di approvazione, non ha risparmiato ulteriori riduzioni
di spesa, meritandosi le proteste del Nobel Rita Levi Montalcini, le
dimissioni minacciate del ministro dell’università e della ricerca Fabio
Mussi e quelle confermate del responsabile Ds alla ricerca, Walter Tocci.
Tra i vari effetti, la stretta finanziaria mette in crisi proprio i
meccanismi di assunzione del personale ricercatore. Al problema della
scarsezza di risorse si aggiunge quello della bassa efficienza della nostra
università e della ricerca pubblica. Il tema è caldo e le polemiche sono
quotidiane. Si arriva a evocare misure molto drastiche. I più integralisti
ritengono che il sistema pubblico non sia riformabile, nemmeno aumentando i
gradi di autonomia e di responsabilità, cioè introducendo severe attività di
valutazione e selezione delle risorse: meglio privatizzare tutto e affidarsi
al mercato.
Ma siamo sicuri che per risolvere i problemi dell’innovazione e
dell’efficienza scientifica basti affidarsi al mercato? Calandoci
nell’ambito del sistema agroalimentare, la questione è particolarmente
rilevante. I comparti agroalimentari sono tra quelli che più risentono della
scarsa innovazione.
La ragione principale è la prevalenza di piccole aziende che, a differenza
delle grandi industrie, non possono distribuire i rischi degli investimenti
in R&S su ampie gamme di prodotti. In questi comparti, la nuova conoscenza
diventa un «bene pubblico», che legittima l’intervento dello Stato.
Certamente, le attività di marketing sono fondamentali per diffondere i
nuovi prodotti agroalimentari. Ma l’esperienza suggerisce inoltre che
l’adozione delle innovazioni presso le aziende dipende anche da ben
congegnate attività di trasferimento tecnologico, in grado di ingegnerizzare
la nuova conoscenza e di tradurla rapidamente in forma utile per l’impresa.
È esattamente quel che si sta tentando di fare con i Centri di competenza,
che hanno bisogno, prima ancora che di laboratori, di bravi tecnici in grado
di collegare le imprese con centri di ricerca efficienti e coerentemente
orientati agli obiettivi strategici dell’agroalimentare italiano.
Al proposito, non possiamo pensare di comprare tutta la tecnologia
all’estero, rinunciando a far crescere l’R&S «made in Italy», che è
strategico, ma ancora «bambino». Perciò, concludo con una piccola morale:
non buttiamo la tesi di Bidhé, ma non buttiamo nemmeno il «bambino».
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