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L'Informatore Agrario

Sommario rivista

Approfondimento

   
44
 10-16 Nov.

  2006
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Attualità POLITICA

Sempre più malata la ricerca vitivinicola

Intervista al professor Attilio Scienza

Prima ancora delle scarse risorse economiche disponibili preoccupa l’assenza di coordinamento tra i vari soggetti interessati: il risultato è una mancanza di collegamento tra il mondo produttivo e quello della ricerca

L'avevamo sentito qualche settimana fa a Montalcino, durante una tavola rotonda, raccontare le difficoltà in cui da tempo si dibatte la ricerca vitivinicola del nostro Paese. Non si trattava di un giovane ricercatore ma di uno dei maggiori scienziati vitivinicoli italiani di fama internazionale. Era, infatti, Attilio Scienza, professore ordinario di viticoltura presso il Dipartimento di produzione vegetale della Facoltà di agraria di Milano, unanimemente riconosciuto come uno dei massimi studiosi mondiali in ambito vitivinicolo.
Per avere ulteriori ragguagli e informazioni sulla situazione attuale della ricerca vitivinicola nazionale, e anche sui possibili rimedi, abbiamo rivolto a Scienza alcune domande.
Professor Scienza, ma la ricerca vitivinicola italiana è messa così male?

Appare ormai chiaro a tutti che la ricerca in vitivinicoltura nel nostro Paese è largamente insufficiente rispetto alle esigenze del settore. Basta confrontarsi con Paesi come la Francia e l’Australia, tanto per fare due esempi, per capire quanto noi siamo deficitari.
È veramente una situazione assurda perché, se veramente consideriamo strategico il comparto vitivinicolo nell’ambito dell’agro-
alimentare made in Italy, allora si deve capire che è fondamentale investire maggiormente in ricerca.
Si tratta quindi, soprattutto, di un problema di risorse economiche?

Non è solo un problema di risorse, che sono comunque realmente poche, ma prima di tutto di una questione organizzativa. Esiste, infatti, una enorme domanda latente di ricerca in questo settore che però non sa a chi rivolgersi. Non esiste a tuttoggi un collegamento tra il mondo della produzione e quello della ricerca. Può sembrare paradossale, ma è così. Esiste invece, purtroppo, una dispersione enorme tra una miriade di enti e istituzioni deputati alla ricerca viticola nel nostro Paese e questo fa disperdere ulteriormente le poche risorse a disposizione.
Tanti enti di ricerca che si muovono senza coordinamento.

Esattamente. C’eravamo illusi che con la riforma del Cra (Consiglio per la ricerca agricola) avremmo finalmente avuto un maggior coordinamento tra gli enti di ricerca, ma così non è stato. Addirittura si è mantenuta ancora una aberrazione nella ricerca in questo campo che non si manifesta in nessun altro Paese a eccezione del nostro.
Quale?

La divisione tra ricerca viticola e quella enologica. Una divisione che è la madre di tante incongruenze. Non è infatti possibile che da un lato si facciano ricerche sulle varietà, sul vigneto e dall’altro non vi siano collegamenti diretti con la sperimentazione enologica. Mi sembra talmente ovvio che diventa veramente difficile trovare una giustificazione a questa scelta di tenerle divise.
Divisione tra enti di ricerca, divisione tra ricerca viticola e quella enologica, c’è un modo per trovare unitarietà?

Senza inventarsi grandi cose, basterebbe imitare quanto avviene in Francia. Lì, da circa un decennio, si sono costituiti tre pool di ricerca: uno a Montpellier, che si occupa della ricerca vitienologica per la zona meridionale; uno a Bordeaux per la zona atlantica; uno a Digione per l’area continentale dello Champagne e della Borgogna. Si è così creata una massa critica di ricerca sufficiente per dare risposte adeguate alle esigenze del settore.
Eppure anche in quel Paese dieci anni fa vi erano molti enti coinvolti nella ricerca: dalle Chambre d’agricolture alle scuole enologiche, alle Università. Oggi la ricerca francese è in poche mani che possono gestire, così, anche molte più risorse rispetto al passato. Ricerca, quindi, razionalizzata e indirizzata totalmente verso le esigenze e le aspettative delle imprese e, inoltre, formazione istituzionalizzata.
Ci faccia capire meglio: cosa vuol dire maggiore coinvolgimento delle imprese private nella ricerca?

In tutti i Paesi anglosassoni, in particolare, ogni attività di ricerca è supportata da aziende private o gruppi di imprese. Da noi questo ancora non avviene. All’estero si è creato un modello virtuoso, in questo senso, defiscalizzando parte dei finanziamenti che le imprese fanno per la ricerca. Insomma, se una impresa finanzia una specifica ricerca, un laboratorio sperimentale ha la possibilità di vedersi riconoscere dallo Stato alcune agevolazioni fiscali o dirette (in termini di decurtazioni di tasse) o indirette (riduzione tassi contributi per personale, ecc.). Addirittura arriviamo a esempi come l’Australia dove per ogni quintale di uva prodotta c’è una percentuale fissa da destinare alla ricerca. In Italia, invece, abbiamo poco o nulla dalla Stato e ora quasi niente anche dalle Regioni.
Ma non dovevano essere proprio le Regioni ad avere la delega anche sul tema della ricerca?

Questa regionalizzazione ha ulteriormente peggiorato la situazione. Se lo Stato centrale aveva ormai ridotto all’osso i finanziamenti per la ricerca, le Regioni li hanno praticamente annullati. Gli istituti sperimentali, è ormai cosa nota, sono al totale disfacimento. Si hanno solo pochi esempi positivi, come in Veneto l’Istituto di Conegliano, che sta tentando di coordinarsi con l’Università di Verona, o come l’Università di Udine, senza dimenticare San Michele all’Adige (Trento), che continua a essere un realtà di ricerca interessante, decisamente poco «italiana» per impostazione e cultura.
Vi sono però regioni di grande tradizione vitivinicola come la Toscana, l’Emilia-Romagna, il Piemonte, dove praticamente non si fa più nulla in termini di ricerca.
E per quanto riguarda la formazione?

Significa avere centri di ricerca che proseguono nell’attività di formazione anche dopo che le figure professionali sono uscite dalle scuole o dall’Università. Noi, invece, non abbiamo un sistema di formazione permanente. Quando un enologo esce dalle nostre Università non ha più modo di formarsi ulteriormente, di aggiornarsi, come se la ricerca non continuasse ad andare avanti.
Insomma, come uscire da uno stato
così difficile, per certi aspetti drammatico?
Intanto riportando la ricerca come tema strategico che deve tornare nelle mani dello Stato. Le Regioni, fino a oggi, hanno dimostrato in larga misura di utilizzare male la loro competenza in materia. Si deve, poi, trovare un forte coordinamento tra tutti gli enti di ricerca a partire dal Cra e Cnr. Anche noi potremmo costituire come la Francia quattro pool di ricerca: uno per il Nord-est; uno per il Nord-ovest; uno per il Centro; uno per il Sud e le Isole. Ma si devono anche trovare modelli fiscali per agevolare l’ingresso delle risorse private nella ricerca pubblica. Se non ci muoviamo in fretta in questa direzione rischiamo che ci superi anche la Spagna, che si sta organizzando bene pure su queste tematiche.
Le imprese vitivinicole italiane, inoltre, si lamentano di non avere dalle Università professionisti capaci anche sul fronte del marketing, del commercio.

È una triste realtà, inutile negarlo. Dalle nostre Università magari escono ottimi tecnici di vigna, ma se a loro viene messo in mano un bilancio economico dell’azienda o un business plan non sanno nemmeno come leggerlo. Su questo fronte siamo in ritardo enorme e qui il problema diventa ancor più grave per il reperimento di docenze adeguate alle problematiche di mercato attuali.
 

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Fabio Piccoli



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