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Sempre più malata la ricerca vitivinicola |
Intervista al professor Attilio Scienza
Prima ancora delle scarse risorse economiche disponibili
preoccupa l’assenza di coordinamento tra i vari soggetti interessati: il
risultato è una mancanza di collegamento tra il mondo produttivo e quello
della ricerca
L'avevamo sentito qualche settimana fa a Montalcino,
durante una tavola rotonda, raccontare le difficoltà in cui da tempo si
dibatte la ricerca vitivinicola del nostro Paese. Non si trattava di un
giovane ricercatore ma di uno dei maggiori scienziati vitivinicoli italiani
di fama internazionale. Era, infatti, Attilio Scienza, professore ordinario
di viticoltura presso il Dipartimento di produzione vegetale della Facoltà
di agraria di Milano, unanimemente riconosciuto come uno dei massimi
studiosi mondiali in ambito vitivinicolo.
Per avere ulteriori ragguagli e informazioni sulla situazione attuale della
ricerca vitivinicola nazionale, e anche sui possibili rimedi, abbiamo
rivolto a Scienza alcune domande.
Professor Scienza, ma la ricerca vitivinicola italiana è messa così male?
Appare ormai chiaro a tutti che la ricerca in vitivinicoltura nel nostro
Paese è largamente insufficiente rispetto alle esigenze del settore. Basta
confrontarsi con Paesi come la Francia e l’Australia, tanto per fare due
esempi, per capire quanto noi siamo deficitari.
È veramente una situazione assurda perché, se veramente consideriamo
strategico il comparto vitivinicolo nell’ambito dell’agro-
alimentare made in Italy, allora si deve capire che è fondamentale investire
maggiormente in ricerca.
Si tratta quindi, soprattutto, di un problema di risorse economiche?
Non è solo un problema di risorse, che sono comunque realmente poche, ma
prima di tutto di una questione organizzativa. Esiste, infatti, una enorme
domanda latente di ricerca in questo settore che però non sa a chi
rivolgersi. Non esiste a tuttoggi un collegamento tra il mondo della
produzione e quello della ricerca. Può sembrare paradossale, ma è così.
Esiste invece, purtroppo, una dispersione enorme tra una miriade di enti e
istituzioni deputati alla ricerca viticola nel nostro Paese e questo fa
disperdere ulteriormente le poche risorse a disposizione.
Tanti enti di ricerca che si muovono senza coordinamento.
Esattamente. C’eravamo illusi che con la riforma del Cra (Consiglio per la
ricerca agricola) avremmo finalmente avuto un maggior coordinamento tra gli
enti di ricerca, ma così non è stato. Addirittura si è mantenuta ancora una
aberrazione nella ricerca in questo campo che non si manifesta in nessun
altro Paese a eccezione del nostro.
Quale?
La divisione tra ricerca viticola e quella enologica. Una divisione che è la
madre di tante incongruenze. Non è infatti possibile che da un lato si
facciano ricerche sulle varietà, sul vigneto e dall’altro non vi siano
collegamenti diretti con la sperimentazione enologica. Mi sembra talmente
ovvio che diventa veramente difficile trovare una giustificazione a questa
scelta di tenerle divise.
Divisione tra enti di ricerca, divisione tra ricerca viticola e quella
enologica, c’è un modo per trovare unitarietà?
Senza inventarsi grandi cose, basterebbe imitare quanto avviene in Francia.
Lì, da circa un decennio, si sono costituiti tre pool di ricerca: uno a
Montpellier, che si occupa della ricerca vitienologica per la zona
meridionale; uno a Bordeaux per la zona atlantica; uno a Digione per l’area
continentale dello Champagne e della Borgogna. Si è così creata una massa
critica di ricerca sufficiente per dare risposte adeguate alle esigenze del
settore.
Eppure anche in quel Paese dieci anni fa vi erano molti enti coinvolti nella
ricerca: dalle Chambre d’agricolture alle scuole enologiche, alle
Università. Oggi la ricerca francese è in poche mani che possono gestire,
così, anche molte più risorse rispetto al passato. Ricerca, quindi,
razionalizzata e indirizzata totalmente verso le esigenze e le aspettative
delle imprese e, inoltre, formazione istituzionalizzata.
Ci faccia capire meglio: cosa vuol dire maggiore coinvolgimento delle
imprese private nella ricerca?
In tutti i Paesi anglosassoni, in particolare, ogni attività di ricerca è
supportata da aziende private o gruppi di imprese. Da noi questo ancora non
avviene. All’estero si è creato un modello virtuoso, in questo senso,
defiscalizzando parte dei finanziamenti che le imprese fanno per la ricerca.
Insomma, se una impresa finanzia una specifica ricerca, un laboratorio
sperimentale ha la possibilità di vedersi riconoscere dallo Stato alcune
agevolazioni fiscali o dirette (in termini di decurtazioni di tasse) o
indirette (riduzione tassi contributi per personale, ecc.). Addirittura
arriviamo a esempi come l’Australia dove per ogni quintale di uva prodotta
c’è una percentuale fissa da destinare alla ricerca. In Italia, invece,
abbiamo poco o nulla dalla Stato e ora quasi niente anche dalle Regioni.
Ma non dovevano essere proprio le Regioni ad avere la delega anche sul
tema della ricerca?
Questa regionalizzazione ha ulteriormente peggiorato la situazione. Se lo
Stato centrale aveva ormai ridotto all’osso i finanziamenti per la ricerca,
le Regioni li hanno praticamente annullati. Gli istituti sperimentali, è
ormai cosa nota, sono al totale disfacimento. Si hanno solo pochi esempi
positivi, come in Veneto l’Istituto di Conegliano, che sta tentando di
coordinarsi con l’Università di Verona, o come l’Università di Udine, senza
dimenticare San Michele all’Adige (Trento), che continua a essere un realtà
di ricerca interessante, decisamente poco «italiana» per impostazione e
cultura.
Vi sono però regioni di grande tradizione vitivinicola come la Toscana, l’Emilia-Romagna,
il Piemonte, dove praticamente non si fa più nulla in termini di ricerca.
E per quanto riguarda la formazione?
Significa avere centri di ricerca che proseguono nell’attività di formazione
anche dopo che le figure professionali sono uscite dalle scuole o
dall’Università. Noi, invece, non abbiamo un sistema di formazione
permanente. Quando un enologo esce dalle nostre Università non ha più modo
di formarsi ulteriormente, di aggiornarsi, come se la ricerca non
continuasse ad andare avanti.
Insomma, come uscire da uno stato così difficile, per certi
aspetti drammatico?
Intanto riportando la ricerca come tema strategico che deve tornare nelle
mani dello Stato. Le Regioni, fino a oggi, hanno dimostrato in larga misura
di utilizzare male la loro competenza in materia. Si deve, poi, trovare un
forte coordinamento tra tutti gli enti di ricerca a partire dal Cra e Cnr.
Anche noi potremmo costituire come la Francia quattro pool di ricerca: uno
per il Nord-est; uno per il Nord-ovest; uno per il Centro; uno per il Sud e
le Isole. Ma si devono anche trovare modelli fiscali per agevolare
l’ingresso delle risorse private nella ricerca pubblica. Se non ci muoviamo
in fretta in questa direzione rischiamo che ci superi anche la Spagna, che
si sta organizzando bene pure su queste tematiche.
Le imprese vitivinicole italiane, inoltre, si lamentano di non avere
dalle Università professionisti capaci anche sul fronte del marketing, del
commercio.
È una triste realtà, inutile negarlo. Dalle nostre Università magari escono
ottimi tecnici di vigna, ma se a loro viene messo in mano un bilancio
economico dell’azienda o un business plan non sanno nemmeno come leggerlo.
Su questo fronte siamo in ritardo enorme e qui il problema diventa ancor più
grave per il reperimento di docenze adeguate alle problematiche di mercato
attuali.
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