|
|
Fare impresa, strada obbligata |
L’agricoltura italiana può affrontare la sfida del mercato solo con
gli imprenditori veri, quelli cioè che sono riusciti a capitalizzare gli
aiuti pubblici finora ricevuti e che oggi devono dimostrare la loro capacità
di investire
Sono anni che sulla stampa agricola leggo sempre le stesse
cose che riguardano o gli aiuti attesi o il timore della perdita di vecchi
aiuti concessi dalla mano pubblica. Alla fine dobbiamo riconoscerlo:
l’agricoltura è un settore assistito, anche se cerchiamo di consolarci
dicendo che pure gli altri settori lo sono. Le ragioni sono tante e le
conosciamo, alcune sono di carattere strutturale – la debolezza del settore
agricolo – altre sono legate alle politiche di cui il settore agricolo
diventa strumento: il contenimento dei prezzi dei prodotti di base per
l’alimentazione, il carattere strategico dell’autosufficienza alimentare, il
ruolo svolto dall’agricoltura nella tutela del paesaggio e dell’ambiente,
ecc. Le ragioni quindi ci sono, sono tante e tutte giuste, ma sarebbe
interessante chiederci cosa sarebbe l’agricoltura italiana oggi senza il
fiume di aiuti che ha ricevuto e, soprattutto, cosa potrebbe diventare se
questo flusso tendesse ad assottigliarsi, come molti temono, e a scomparire.
Nel passato credo che l’effetto più negativo lo abbia prodotto «la cultura
dell’assistenzialismo» nella quale sono vissute le nostre aziende sia grandi
che piccole, sia contadine che capitalistiche. Operare in un mercato
fortemente protetto, con differenziali di prezzo da uno a due volte
superiori ai prezzi mondiali, attendendo o il credito agevolato o i
contributi a fondo perduto per procedere a investimenti in azienda, ha
pesato come una cappa sullo sviluppo della nostra agricoltura. In queste
condizioni, gli imprenditori si sono mossi giustamente sul sentiero di
sviluppo tracciato dalla politica della Comunità che garantiva il sostegno
dei prezzi, decidendo di aumentare il più possibile la produttività dei
processi produttivi per raggiungere contemporaneamente due obiettivi: la
riduzione dei costi e l’aumento dei ricavi grazie alla permeabilità del
mercato alle eccedenze produttive. Ma la logica della rendita che questo
consentiva sia alla piccola che alla grande azienda ha di fatto bloccato la
dinamica delle strutture fondiarie e non ha stimolato le aziende ad
aggregarsi per affrontare la competizione su un mercato che, comunque, era
protetto. Mansholt alla fine del periodo transitorio (1968) aveva previsto i
pericoli di una politica fortemente assistenziale e proposto le misure per
uscirne, ma gli interessi di parte hanno permesso soltanto degli adattamenti
marginali fino alla rivoluzione odierna della riforma Fischler, che è
passata solo per il nuovo ordine commerciale a dimensione mondiale imposto
dalla Wto e perché l’agricoltura nell’opinione pubblica europea non ha più
l’importanza di una volta.
Resta la domanda: cosa succederà dell’agricoltura se il flusso di aiuti, di
cui finora ha goduto, si inaridirà o cesserà del tutto? Poiché non pare una
ipotesi del tutto sballata, la prima considerazione da fare è che la nostra
agricoltura, malgrado gli innegabili progressi, è ancora lontana sul piano
dell’efficienza organizzativa e commerciale da altre agricolture della
vecchia Europa a 15. In alcuni settori non riusciamo a vincere la
competizione con la Francia, con la Danimarca, con la piccola Olanda, con la
Germania, con la stessa Spagna che, proprio perché è entrata più tardi nella
Comunità, ha fatto notevoli sforzi per prepararsi. Non si può pensare che di
fronte all’inaridimento dei flussi degli aiuti comunitari scomparirà
l’agricoltura europea, resterà quindi il problema di competere con quelle
agricolture che già oggi sono più forti di noi, anche perché hanno saputo
allocare meglio le risorse in quei settori (organizzazione dell’offerta,
trasformazione, logistica, ecc.) diventati strategici per rispondere alle
esigenze del moderno mercato agroalimentare. Per affrontare questa nuova e
difficile sfida, non si può pensare che tutte le aziende agricole italiane
possano essere oggetto della stessa politica; è finita l’epoca sia dei
coltivatori diretti che degli agrari, ora possono restare solo gli
imprenditori veri, quelli che in questi anni sono riusciti a capitalizzare
gli aiuti ricevuti, e che oggi devono dimostrare la loro capacità di
investire e di affrontare il mercato, anche rinunciando al loro
individualismo.
Credo che molti ricordino il famoso libro di Corrado Barberis con il quale
tanti, analizzando l’invecchiamento della famiglia contadina, arrivavano
alla conclusione che l’agricoltura sarebbe finita per mancanza di
successori. Gli agricoltori ci sono ancora, ci sono anche i giovani nelle
aziende più efficienti, bisogna solo finirla con il piagnisteo e con la
paura di perdere gli aiuti della mano pubblica che, comunque, non potranno
inaridirsi proprio per le stesse ragioni, ancora valide, per le quali
venivano dati in passato, ma dovranno essere usati meglio e senza perdere
altro tempo.
|