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L'Informatore Agrario
Sommario rivista Approfondimento
   
41
 27 Ott.-2 Nov.

  2006
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Editoriale

Fare impresa, strada obbligata
Corrado Giacomini

L’agricoltura italiana può affrontare la sfida del mercato solo con gli imprenditori veri, quelli cioè che sono riusciti a capitalizzare gli aiuti pubblici finora ricevuti e che oggi devono dimostrare la loro capacità di investire

Sono anni che sulla stampa agricola leggo sempre le stesse cose che riguardano o gli aiuti attesi o il timore della perdita di vecchi aiuti concessi dalla mano pubblica. Alla fine dobbiamo riconoscerlo: l’agricoltura è un settore assistito, anche se cerchiamo di consolarci dicendo che pure gli altri settori lo sono. Le ragioni sono tante e le conosciamo, alcune sono di carattere strutturale – la debolezza del settore agricolo – altre sono legate alle politiche di cui il settore agricolo diventa strumento: il contenimento dei prezzi dei prodotti di base per l’alimentazione, il carattere strategico dell’autosufficienza alimentare, il ruolo svolto dall’agricoltura nella tutela del paesaggio e dell’ambiente, ecc. Le ragioni quindi ci sono, sono tante e tutte giuste, ma sarebbe interessante chiederci cosa sarebbe l’agricoltura italiana oggi senza il fiume di aiuti che ha ricevuto e, soprattutto, cosa potrebbe diventare se questo flusso tendesse ad assottigliarsi, come molti temono, e a scomparire.
Nel passato credo che l’effetto più negativo lo abbia prodotto «la cultura dell’assistenzialismo» nella quale sono vissute le nostre aziende sia grandi che piccole, sia contadine che capitalistiche. Operare in un mercato fortemente protetto, con differenziali di prezzo da uno a due volte superiori ai prezzi mondiali, attendendo o il credito agevolato o i contributi a fondo perduto per procedere a investimenti in azienda, ha pesato come una cappa sullo sviluppo della nostra agricoltura. In queste condizioni, gli imprenditori si sono mossi giustamente sul sentiero di sviluppo tracciato dalla politica della Comunità che garantiva il sostegno dei prezzi, decidendo di aumentare il più possibile la produttività dei processi produttivi per raggiungere contemporaneamente due obiettivi: la riduzione dei costi e l’aumento dei ricavi grazie alla permeabilità del mercato alle eccedenze produttive. Ma la logica della rendita che questo consentiva sia alla piccola che alla grande azienda ha di fatto bloccato la dinamica delle strutture fondiarie e non ha stimolato le aziende ad aggregarsi per affrontare la competizione su un mercato che, comunque, era protetto. Mansholt alla fine del periodo transitorio (1968) aveva previsto i pericoli di una politica fortemente assistenziale e proposto le misure per uscirne, ma gli interessi di parte hanno permesso soltanto degli adattamenti marginali fino alla rivoluzione odierna della riforma Fischler, che è passata solo per il nuovo ordine commerciale a dimensione mondiale imposto dalla Wto e perché l’agricoltura nell’opinione pubblica europea non ha più l’importanza di una volta.
Resta la domanda: cosa succederà dell’agricoltura se il flusso di aiuti, di cui finora ha goduto, si inaridirà o cesserà del tutto? Poiché non pare una ipotesi del tutto sballata, la prima considerazione da fare è che la nostra agricoltura, malgrado gli innegabili progressi, è ancora lontana sul piano dell’efficienza organizzativa e commerciale da altre agricolture della vecchia Europa a 15. In alcuni settori non riusciamo a vincere la competizione con la Francia, con la Danimarca, con la piccola Olanda, con la Germania, con la stessa Spagna che, proprio perché è entrata più tardi nella Comunità, ha fatto notevoli sforzi per prepararsi. Non si può pensare che di fronte all’inaridimento dei flussi degli aiuti comunitari scomparirà l’agricoltura europea, resterà quindi il problema di competere con quelle agricolture che già oggi sono più forti di noi, anche perché hanno saputo allocare meglio le risorse in quei settori (organizzazione dell’offerta, trasformazione, logistica, ecc.) diventati strategici per rispondere alle esigenze del moderno mercato agroalimentare. Per affrontare questa nuova e difficile sfida, non si può pensare che tutte le aziende agricole italiane possano essere oggetto della stessa politica; è finita l’epoca sia dei coltivatori diretti che degli agrari, ora possono restare solo gli imprenditori veri, quelli che in questi anni sono riusciti a capitalizzare gli aiuti ricevuti, e che oggi devono dimostrare la loro capacità di investire e di affrontare il mercato, anche rinunciando al loro individualismo.
Credo che molti ricordino il famoso libro di Corrado Barberis con il quale tanti, analizzando l’invecchiamento della famiglia contadina, arrivavano alla conclusione che l’agricoltura sarebbe finita per mancanza di successori. Gli agricoltori ci sono ancora, ci sono anche i giovani nelle aziende più efficienti, bisogna solo finirla con il piagnisteo e con la paura di perdere gli aiuti della mano pubblica che, comunque, non potranno inaridirsi proprio per le stesse ragioni, ancora valide, per le quali venivano dati in passato, ma dovranno essere usati meglio e senza perdere altro tempo.
 

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