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L'Informatore Agrario

Sommario rivista

Approfondimento

 
40
 20-26 Ott.

  2006
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Attualità POLITICA

L'olio d'oliva rifiuta le cattive compagnie

Fronte compatto degli olivicoltori

Il ministro De Castro ribadisce il divieto alla produzione e commercializzazione di miscele di oli vegetali, teoricamente permesse dalla regolamentazione comunitaria, nonostante le assurde posizioni di alcuni anelli della filiera

Il ministro Paolo De Castro ha preso atto con estrema tempestività e sensibilità della ferma posizione negativa espressa dalle organizzazioni agricole (Confederazioni, Unioni nazionali dei produttori olivicoli) e delle perplessità espresse dall’Ispettorato centrale repressione frodi.
Nel corso di una riunione svolta nei giorni scorsi al Mipaaf, i rappresentanti del mondo della produzione hanno unitariamente confermato la propria posizione, assunta anche in una apposita lettera inviata al Copa-Cogeca, di preservare le tradizioni, la cultura, l’immagine e la qualità dell’olio di oliva vietando la pratica della miscelazione. Un impegno peraltro a suo tempo assunto anche dai rappresentanti della filiera (industria e commercio) e ribadita in un accordo sottoscritto presso il Coi, il Consiglio olivicolo internazionale. Un impegno al quale, con ogni evidenza, qualche «furbetto» si vorrebbe oggi sottrarre.
La madre di tutti i problemi
La questione, come è noto, è radicata in quella normativa che ormai è diventata la vera madre di tutti i problemi dell’olivicoltura: il regolamento 1019/02. Celebrato, immotivatamente e pomposamente, dai servizi della Commissione come un provvedimento innovativo capace di declinare gli obiettivi strategici contenuti nel manifesto sulla «strategia della qualità», diffuso alla fine del 2000, in realtà il regolamento 1019/02 si è rivelato come un capitolo inespresso di impotenza, arroganza e stupidità rispetto al mercato.
Una montagna capace di partorire un topolino piccolo piccolo, ovvero l’abbassamento del limite del parametro dell’acidità per gli oli extravergini da 1 a 0,8 gradi, oltre all’obbligo di confezionamento per un massimo di 5 L dell’olio venduto al consumatore finale.
Un manifesto che segna in realtà il declino dell’Unione Europea nel mercato mondiale. Da allora infatti si è assistito a una progressiva perdita della posizione dominante di un sistema di Paesi che rappresenta quasi l’80% della produzione di olio di oliva a livello mondiale, costretto ormai a mendicare accordi al ribasso in sede internazionale sull’olio di oliva (sono noti i preoccupanti allargamenti dei parametri minimi analitici della categoria degli oli extravergini, concessa per dare soddisfazione ai Paesi rivieraschi del Mediterraneo), dopo aver colpevolmente affossato una struttura come il Coi, che avrebbe potuto rappresentare un cuneo incisivo di sviluppo di una politica della qualità, dei controlli e della comunicazione.
Il regolamento 1019/02 è pieno di contraddizioni e di ambiguità. Non sono bastate due note esplicative, la prima redatta nel 2002 e la seconda nel 2004, per dare chiarezza al provvedimento. A ogni enunciato non corrisponde una norma adeguata.
La prova? Si parla dell’origine del prodotto, timidamente si sposta il concetto di origine dal frantoio al luogo di produzione delle olive, ma non si rende obbligatoria l’indicazione in etichetta dell’origine.
Analogamente sulle menzioni aggiuntive, che dovrebbero integrare o sostituire termini assai poco appetibili sul piano commerciale come amaro e piccante, si vaga ancora nel buio e di rinvio in rinvio si è arrivati sino al 2008.
E infine la discussa questione delle miscele, con una ipocrita scelta, contenuta all’articolo 6 del regolamento 1019/02, di autorizzare gli Stati membri alla produzione, ma lasciando inalterati i vincoli di non commercializzare tali prodotti all’interno del territorio dell’Unione.
Come è stato rilevato in maniera molto decisa da parte dei rappresentanti dell’Ispettorato centrale repressione frodi, una situazione di questo genere renderebbe estremamente complessi i controlli, poiché ogni volta che si dovesse riscontrare la presenza di olio di semi presso un frantoio o una struttura di confezionamento potrebbe essere invocata la facoltà di predisporre miscele destinate ai Paesi terzi. Né l’attuale carente stato delle metodiche analitiche ufficiali agevola il compito di controllo.
Va positivamente sottolineata l’iniziativa assunta dalla stessa Direzione centrale della Repressione frodi di accogliere le richieste del mondo della produzione e di proporre nei prossimi giorni un sereno e approfondito confronto per attuare un deciso ed efficace piano di controlli in grado di smascherare e fermare le possibili frodi che alla vigilia della nuova campagna potrebbero determinarsi ai danni dei produttori onesti e dei consumatori.
La ferma posizione di evitare all’Italia un passo falso divenendo il primo Paese a legittimare la produzione delle miscele è venuta anche dai rappresenti delle Regioni presenti per la prima volta e divenuti subito protagonisti dell’incontro al Ministero.
Chi gioca al ribasso
Quello che appare assolutamente sconcertante è la posizione ancora una volta assunta dai rappresentati delle imprese di confezionamento italiane, mai paghi di inseguire al ribasso l’apertura dei nuovi mercati di consumo.
Evidentemente non contenti di perdere oltre quattro punti all’anno di indici di redditività sui propri bilanci – così come dimostrato dalle indagini pubblicate da Ismea sulla filiera agroalimentare – le imprese di confezionamento italiane inseguono improbabili margini di profitto nel torbido mercato delle miscele. Un segmento dove peraltro da anni operano agguerrite e innominabili aziende nelle quali il ruolo dei laboratori chimici svolge un compito primario, che non sfigurerebbe affatto di fronte alle acquisizioni tecnologiche delle raffinerie dei narcotraficantes.
Appare inoltre paradossale come, proprio per frenare gli evidenti abusi di queste piraterie agroalimentari, le industrie nazionali invece di puntare su elementi di trasparenza del mercato e di tutela del made in Italy – che le renderebbe uniche ed esclusive portatrici di un plus di offerta – si orientino invece sul mantenimento di un mercato assolutamente opaco, dove non a caso i ritardi nella definizione delle metodiche scientifiche fanno il gioco di una concorrenza del tutto sleale che non tutela in alcun modo l’interesse primario del consumatore.
È giunto il momento che il sistema Italia dell’extravergine di qualità inverta decisamente la rotta. Occorre rivendicare con fermezza e con orgoglio le grandi potenzialità di mercato dell’autentico made in Italy.
Come ha affermato con decisione il presidente dell’Unaprol Massimo Gargano nel corso della riunione svolta al Ministero, ci vuole un deciso cambiamento nel regolamento n. 1019/02. Occorre un nuovo protagonismo, far sentire più forte e più decisa la voce dell’Italia nell’Unione Europea per consentire alla stessa Ue di avere una posizione negoziale più forte in sede di accordi internazionali sull’olio di oliva.
Di fronte a un mercato di consumo che si apre ed evolve verso l’alto occorre tenere alta la bandiera della qualità, della competitività e del territorio che fa sognare il consumatore.

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Ranieri Filo della Torre



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