POLITICA |
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L'olio d'oliva rifiuta le cattive compagnie |
Fronte compatto degli olivicoltori
Il ministro De Castro ribadisce il divieto alla produzione e
commercializzazione di miscele di oli vegetali, teoricamente permesse dalla
regolamentazione comunitaria, nonostante le assurde posizioni di alcuni
anelli della filiera
Il ministro Paolo De Castro ha preso atto con estrema
tempestività e sensibilità della ferma posizione negativa espressa dalle
organizzazioni agricole (Confederazioni, Unioni nazionali dei produttori
olivicoli) e delle perplessità espresse dall’Ispettorato centrale
repressione frodi.
Nel corso di una riunione svolta nei giorni scorsi al Mipaaf, i
rappresentanti del mondo della produzione hanno unitariamente confermato la
propria posizione, assunta anche in una apposita lettera inviata al
Copa-Cogeca, di preservare le tradizioni, la cultura, l’immagine e la
qualità dell’olio di oliva vietando la pratica della miscelazione. Un
impegno peraltro a suo tempo assunto anche dai rappresentanti della filiera
(industria e commercio) e ribadita in un accordo sottoscritto presso il Coi,
il Consiglio olivicolo internazionale. Un impegno al quale, con ogni
evidenza, qualche «furbetto» si vorrebbe oggi sottrarre.
La madre di tutti i problemi
La questione, come è noto, è radicata in quella normativa che ormai è
diventata la vera madre di tutti i problemi dell’olivicoltura: il
regolamento 1019/02. Celebrato, immotivatamente e pomposamente, dai servizi
della Commissione come un provvedimento innovativo capace di declinare gli
obiettivi strategici contenuti nel manifesto sulla «strategia della
qualità», diffuso alla fine del 2000, in realtà il regolamento 1019/02 si è
rivelato come un capitolo inespresso di impotenza, arroganza e stupidità
rispetto al mercato.
Una montagna capace di partorire un topolino piccolo piccolo, ovvero
l’abbassamento del limite del parametro dell’acidità per gli oli
extravergini da 1 a 0,8 gradi, oltre all’obbligo di confezionamento per un
massimo di 5 L dell’olio venduto al consumatore finale.
Un manifesto che segna in realtà il declino dell’Unione Europea nel mercato
mondiale. Da allora infatti si è assistito a una progressiva perdita della
posizione dominante
di un sistema di Paesi che rappresenta quasi l’80% della produzione di olio
di oliva a livello mondiale, costretto ormai a mendicare accordi al ribasso
in sede internazionale sull’olio di oliva (sono noti i preoccupanti
allargamenti dei parametri minimi analitici della categoria degli oli
extravergini, concessa per dare soddisfazione ai Paesi rivieraschi del
Mediterraneo), dopo aver colpevolmente affossato una struttura come il Coi,
che avrebbe potuto rappresentare un cuneo incisivo di sviluppo di una
politica della qualità, dei controlli e della comunicazione.
Il regolamento 1019/02 è pieno di contraddizioni e di ambiguità. Non sono
bastate due note esplicative, la prima redatta nel 2002 e la seconda nel
2004, per dare chiarezza al provvedimento. A ogni enunciato non corrisponde
una norma adeguata.
La prova? Si parla dell’origine del prodotto, timidamente si sposta il
concetto di origine dal frantoio al luogo di produzione delle olive, ma non
si rende obbligatoria l’indicazione in etichetta dell’origine.
Analogamente sulle menzioni aggiuntive, che dovrebbero integrare o
sostituire termini assai poco appetibili sul piano commerciale come amaro e
piccante, si vaga ancora nel buio e di rinvio in rinvio si è arrivati sino
al 2008.
E infine la discussa questione delle miscele, con una ipocrita scelta,
contenuta all’articolo 6 del regolamento 1019/02, di autorizzare gli Stati
membri alla produzione, ma lasciando inalterati i vincoli di non
commercializzare tali prodotti all’interno del territorio dell’Unione.
Come è stato rilevato in maniera molto decisa da parte dei rappresentanti
dell’Ispettorato centrale repressione frodi, una situazione di questo genere
renderebbe estremamente complessi i controlli, poiché ogni volta che si
dovesse riscontrare la presenza di olio di semi presso un frantoio o una
struttura di confezionamento potrebbe essere invocata la facoltà di
predisporre miscele destinate ai Paesi terzi. Né l’attuale carente stato
delle metodiche analitiche ufficiali agevola il compito di controllo.
Va positivamente sottolineata l’iniziativa assunta dalla stessa Direzione
centrale della Repressione frodi di accogliere le richieste del mondo della
produzione e di proporre nei prossimi giorni un sereno e approfondito
confronto per attuare un deciso ed efficace piano di controlli in grado di
smascherare e fermare le possibili frodi che alla vigilia della nuova
campagna potrebbero determinarsi ai danni dei produttori onesti e dei
consumatori.
La ferma posizione di evitare all’Italia un passo falso divenendo il primo
Paese a legittimare la produzione delle miscele è venuta anche dai
rappresenti delle Regioni presenti per la prima volta e divenuti subito
protagonisti dell’incontro al Ministero.
Chi gioca al ribasso
Quello che appare assolutamente sconcertante è la posizione ancora una volta
assunta dai rappresentati delle imprese di confezionamento italiane, mai
paghi di inseguire al ribasso l’apertura dei nuovi mercati di consumo.
Evidentemente non contenti di perdere oltre quattro punti all’anno di indici
di redditività sui propri bilanci – così come dimostrato dalle indagini
pubblicate da Ismea sulla filiera agroalimentare – le imprese di
confezionamento italiane inseguono improbabili margini di profitto nel
torbido mercato delle miscele. Un segmento dove peraltro da anni operano
agguerrite e innominabili aziende nelle quali il ruolo dei laboratori
chimici svolge un compito primario, che non sfigurerebbe affatto di fronte
alle acquisizioni tecnologiche delle raffinerie dei narcotraficantes.
Appare inoltre paradossale come, proprio per frenare gli evidenti abusi di
queste piraterie agroalimentari, le industrie nazionali invece di puntare su
elementi di trasparenza del mercato e di tutela del made in Italy – che le
renderebbe uniche ed esclusive portatrici di un plus di offerta – si
orientino invece sul mantenimento di un mercato assolutamente opaco, dove
non a caso i ritardi nella definizione delle metodiche scientifiche fanno il
gioco di una concorrenza del tutto sleale che non tutela in alcun modo
l’interesse primario del consumatore.
È giunto il momento che il sistema Italia dell’extravergine di qualità
inverta decisamente la rotta. Occorre rivendicare con fermezza e con
orgoglio le grandi potenzialità di mercato dell’autentico made in Italy.
Come ha affermato con decisione il presidente dell’Unaprol Massimo Gargano
nel corso della riunione svolta al Ministero, ci vuole un deciso cambiamento
nel regolamento n. 1019/02. Occorre un nuovo protagonismo, far sentire più
forte e più decisa la voce dell’Italia nell’Unione Europea per consentire
alla stessa Ue di avere una posizione negoziale più forte in sede di accordi
internazionali sull’olio di oliva.
Di fronte a un mercato di consumo che si apre ed evolve verso l’alto occorre
tenere alta la bandiera della qualità, della competitività e del territorio
che fa sognare il consumatore.
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