POLITICA |
|
Il sogno toscano dell'olio di California |
Una curiosa proposta per «fare qualità»
Merita qualche commento, e non può rimanere
senza risposta, un articolo pubblicato la scorsa estate sull’inglese The
Economist da John Andrews (corrispondente da Los Angeles del quotato
periodico). Dopo aver ricordato che la California produce appena il 3%
dell’olio d’oliva mondiale (oggi quello extravergine importato costa la metà
di quello locale), segnala che è stata ormai raggiunta la possibilità di
ribaltare la situazione, dimezzando i costi di produzione e quindi i prezzi,
a parità di qualità dell’olio.
Il riferimento è ai risultati ottenuti a Oroville dalla California Olive
Ranch, costituita sei anni fa da investitori spagnoli. Impiantando vasti
oliveti intensivi, con più di 1.500 piante/ha, della cultivar Arbequina,
allevate con criteri di un «siepone», hanno potuto eseguire la raccolta
integralmente meccanica usando macchine scavallatrici che operano per
scuotimento, come alcune vendemmiatrici. Hanno così calcolato che 2
operatori possono raccogliere un ettaro di oliveto in poco più di un’ora e
mezzo, invece delle 20 ore lavorative necessarie per effettuare a mano quel
lavoro. L’euforia scaturita da questi risultati ha indotto l’autore a
sottolineare, evidenziandolo anche nel sottotitolo del suo articolo, che ora
«La California ha la possibilità di fare per l’olio extravergine di oliva
quello che ha già fatto così accuratamente per il vino».
Si conferma quindi la validità della nuova olivicoltura intensiva e
l’interesse che questa sta suscitando nel mondo. Ma non si spiega perché i
Paesi del Mediterraneo, nei quali le nuove tecnologie in questione sono
nate, non dovrebbero anch’essi svilupparle con gli stessi obiettivi
economici e con lo stesso rispetto dei caratteri qualitativi delle
produzioni. Peraltro, l’unico parametro qualitativo segnalato dall’autore è
quello di un’acidità non superiore al 5‰. Evidentemente, ciò è ancora molto
lontano dalle valutazioni qualitative intorno alle quali noi discutiamo
sempre più attentamente e dalla raffinatezza dei consumatori nostrani che
sanno apprezzare i singoli oli extravergini prodotti dalla nostra eterogenea
olivicoltura, non solo rispondenti ai più severi parametri analitici, ma
dotati anche di altre differenze qualitative distinguibili proprio
gustandoli e ricercando appropriati abbinamenti con varie pietanze.
Ma un commento particolare merita la frase con cui lo stesso articolo si
conclude: «In altre parole, quando voi intingerete il vostro pane in quell’olio
di oliva, che ogni aggiornato ristorante californiano ha cura di offrire,
cercate di non pensare a Oroville. Il sapore sarà migliore se sognerete la
Toscana».
Si tratta di poche parole che però contengono messaggi significativi.
L’autore tenderebbe infatti a far considerare soltanto come psicologico il
valore aggiunto legato ai territori di produzione. Proprio quel concetto che
invece, soprattutto per il vino, i francesi hanno saputo legare al termine
di terroir, anche se non ben definito né facilmente parametrizzabile.
Concetto sul quale si basa una parte significativa della valorizzazione dei
nostri prodotti, con particolare riguardo per quelli cosiddetti di nicchia.
Per non rendere apprezzabile qualsiasi differenza, basterebbe – secondo
l’autore – consumare l’olio di Oroville pensando alla nostra Toscana. Il
messaggio sottende una chiara indicazione: l’olivicoltura mediterranea
continui a fornire gradite immagini paesaggistiche tradizionali, alle quali
il consumatore potrà rivolgere il pensiero nel gustare l’olio extravergine
di oliva del nuovo mondo, che dovrebbe avere costi assai più bassi.
Possiamo semplicemente rispondere che, come ha sempre fatto nel corso della
sua storia millenaria, la nostra olivicoltura continuerà invece a creare
tantissimi paesaggi, anche nuovi, assai diversi tra loro sia nello spazio
sia nel tempo, in un continuo processo di modernizzazione, inesauribile e
irrinunciabile per la sopravvivenza stessa, come qualsiasi attività
produttiva.
|