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C'è un futuro per le quote latte? |
Pur considerando le posizioni nettamente contrarie, come quella
francese, è probabile che dal 2015 il regime delle quote scompaia. Se il
processo fosse graduale e razionale l’Italia potrebbe anche affrontare il
confronto con il mercato
Con le dichiarazioni fatte in margine al Consiglio informale dei
ministri dell’agricoltura, che si è tenuto in Finlandia tre settimane fa,
Mariann Fischer Boel, commissario europeo all’agricoltura, ha gettato un bel
sasso nello stagno, dicendo che a suo avviso, dopo il 2014-2015, le quote
potrebbero essere abolite. Secondo la Fischer Boel il sistema delle quote,
così come certi meccanismi della gestione del mercato del latte, quali
l’intervento pubblico su burro e latte in polvere, è una «reliquia» dei
tempi in cui sul nostro mercato lattiero-caseario vi era una massiccia
eccedenza di offerta e quindi si deve pensare a un suo superamento.
Com’è naturale, sulla questione i diversi Paesi dell’Unione Europea si sono
divisi.
La Francia è nettamente contraria a un’abolizione delle quote e in generale
a modifiche radicali della pac; perfettamente logico, dato che si tratta del
maggior beneficiario della spesa agricola di Bruxelles. Austriaci e
finlandesi si oppongono allo smantellamento per il comprensibile timore che,
liberalizzando la riallocazione produttiva in Europa, e di fronte
all’inevitabile riduzione di prezzo, i loro bacini produttivi si
svuoterebbero.
D’altra parte, olandesi e danesi premono per eliminare le quote; per due
Paesi entrambi tradizionalmente attivi nelle esportazioni extra Ue,
l’impossibilità di espandere la produzione e l’alto prezzo dei prodotti
derivati dal latte significa una graduale perdita di quote nel commercio
internazionale. Pensiamo poi a quanto costano le quote ai produttori: per
fare un esempio, nelle ultime quattro campagne sono passate di mano in
Olanda (per vendita con o senza terra) oltre 3,2 milioni di tonnellate di
quote, pari al 31% della produzione complessiva, a un prezzo di circa 1
euro/kg.
Il ministro Paolo De Castro si è dichiarato fondamentalmente d’accordo con
la Fischer Boel, sia sul piano delle convinzioni personali, sia come
posizione politica, affermando che l’Italia sarebbe favorevole a uno
smantellamento graduale del sistema, che andrebbe ben studiato e dopo averne
valutato gli effetti.
C’è da chiedersi perché il ministro assuma questa posizione, quando una
buona parte del mondo agricolo sembra di opinione opposta. Certo si tratta
in parte di coerenza: De Castro stesso ha ricordato che già dal 2000 (quando
egli occupava il medesimo Ministero) l’Italia aveva posto la questione
dell’uscita dal sistema delle quote. A parte ciò ci sono ragioni economiche
inoppugnabili per le quali ai produttori di latte italiani conviene
immaginare un futuro senza quote.
Per cominciare il costo. I conti, da poco diffusi da parte della Commissione
Europea, mostrano che i produttori italiani dovranno pagare 198 milioni di
euro di multe per aver superato il tetto produttivo. Oltre a ciò si deve
tener conto che la quota, che sia stata affittata o comprata, ma anche se
deriva da un’assegnazione gratuita, incide sui costi di produzione.
Ipotizzando l’acquisto a 50 centesimi di euro/kg, si può calcolare in prima
approssimazione un costo di circa 7-8 centesimi di euro/kg all’anno, ossia
poco meno di quanto gli allevatori spendono per gli alimenti acquistati dal
mercato. Moltiplicando per l’intera produzione nazionale, ne viene un
importo di oltre 800 milioni di euro; con la multa, si arriva a un miliardo.
Sull’altro piatto della bilancia vi è l’inevitabile riduzione di prezzo che
un futuro senza quote – e parallelamente senza intervento pubblico sul burro
e sul latte scremato in polvere – dovrebbe comportare. Si calcola un calo
del 15% circa, a voler essere pessimisti possiamo supporre un −20%. Tra
l’altro per l’Italia la riduzione di prezzo sarebbe certo inferiore, perché
noi produciamo meno per l’intervento e più per il mercato, ma anche qui
vogliamo essere pessimisti. A conti fatti ne viene che, alla peggio, i
produttori perderebbero circa 7 centesimi di
euro/kg; il bilancio sarebbe pur sempre in positivo.
Certo la cosa andrebbe attentamente studiata, non bastano questi quattro
«conti della serva», poi ci sono gli effetti sugli equilibri territoriali,
le ipotesi circa le conseguenze sui consumi, ecc. In ogni caso non è
immaginabile un’uscita immediata dal sistema, per una serie di ragioni, tra
cui non ultimo il problema del risarcimento ai produttori. Calcolando per
semplicità che il valore medio delle quote in Europa sia pari alla metà di
quello rilevato in Olanda, ne viene che per indennizzare i produttori
servirebbero circa 64 miliardi di euro ossia due Finanziarie del ministro
Tommaso Padoa Schioppa.
Chiaro quindi che un’uscita dal sistema prima del 2015 non è politicamente
proponibile (e nessuno la propone seriamente): per arrivarci si dovrà
«svuotare» gradualmente le quote del loro valore. Avanti dunque, con
giudizio.
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