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L'Informatore Agrario
Sommario rivista Approfondimento
   
39
 13-19 Ott.

  2006
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Editoriale

C'è un futuro per le quote latte?
Daniele Rama

Pur considerando le posizioni nettamente contrarie, come quella francese, è probabile che dal 2015 il regime delle quote scompaia. Se il processo fosse graduale e razionale l’Italia potrebbe anche affrontare il confronto con il mercato

Con le dichiarazioni fatte in margine al Consiglio informale dei ministri dell’agricoltura, che si è tenuto in Finlandia tre settimane fa, Mariann Fischer Boel, commissario europeo all’agricoltura, ha gettato un bel sasso nello stagno, dicendo che a suo avviso, dopo il 2014-2015, le quote potrebbero essere abolite. Secondo la Fischer Boel il sistema delle quote, così come certi meccanismi della gestione del mercato del latte, quali l’intervento pubblico su burro e latte in polvere, è una «reliquia» dei tempi in cui sul nostro mercato lattiero-caseario vi era una massiccia eccedenza di offerta e quindi si deve pensare a un suo superamento.
Com’è naturale, sulla questione i diversi Paesi dell’Unione Europea si sono divisi.
La Francia è nettamente contraria a un’abolizione delle quote e in generale a modifiche radicali della pac; perfettamente logico, dato che si tratta del maggior beneficiario della spesa agricola di Bruxelles. Austriaci e finlandesi si oppongono allo smantellamento per il comprensibile timore che, liberalizzando la riallocazione produttiva in Europa, e di fronte all’inevitabile riduzione di prezzo, i loro bacini produttivi si svuoterebbero.
D’altra parte, olandesi e danesi premono per eliminare le quote; per due Paesi entrambi tradizionalmente attivi nelle esportazioni extra Ue, l’impossibilità di espandere la produzione e l’alto prezzo dei prodotti derivati dal latte significa una graduale perdita di quote nel commercio internazionale. Pensiamo poi a quanto costano le quote ai produttori: per fare un esempio, nelle ultime quattro campagne sono passate di mano in Olanda (per vendita con o senza terra) oltre 3,2 milioni di tonnellate di quote, pari al 31% della produzione complessiva, a un prezzo di circa 1 euro/kg.
Il ministro Paolo De Castro si è dichiarato fondamentalmente d’accordo con la Fischer Boel, sia sul piano delle convinzioni personali, sia come posizione politica, affermando che l’Italia sarebbe favorevole a uno smantellamento graduale del sistema, che andrebbe ben studiato e dopo averne valutato gli effetti.
C’è da chiedersi perché il ministro assuma questa posizione, quando una buona parte del mondo agricolo sembra di opinione opposta. Certo si tratta in parte di coerenza: De Castro stesso ha ricordato che già dal 2000 (quando egli occupava il medesimo Ministero) l’Italia aveva posto la questione dell’uscita dal sistema delle quote. A parte ciò ci sono ragioni economiche inoppugnabili per le quali ai produttori di latte italiani conviene immaginare un futuro senza quote.
Per cominciare il costo. I conti, da poco diffusi da parte della Commissione Europea, mostrano che i produttori italiani dovranno pagare 198 milioni di euro di multe per aver superato il tetto produttivo. Oltre a ciò si deve tener conto che la quota, che sia stata affittata o comprata, ma anche se deriva da un’assegnazione gratuita, incide sui costi di produzione. Ipotizzando l’acquisto a 50 centesimi di euro/kg, si può calcolare in prima approssimazione un costo di circa 7-8 centesimi di euro/kg all’anno, ossia poco meno di quanto gli allevatori spendono per gli alimenti acquistati dal mercato. Moltiplicando per l’intera produzione nazionale, ne viene un importo di oltre 800 milioni di euro; con la multa, si arriva a un miliardo.
Sull’altro piatto della bilancia vi è l’inevitabile riduzione di prezzo che un futuro senza quote – e parallelamente senza intervento pubblico sul burro e sul latte scremato in polvere – dovrebbe comportare. Si calcola un calo del 15% circa, a voler essere pessimisti possiamo supporre un −20%. Tra l’altro per l’Italia la riduzione di prezzo sarebbe certo inferiore, perché noi produciamo meno per l’intervento e più per il mercato, ma anche qui vogliamo essere pessimisti. A conti fatti ne viene che, alla peggio, i produttori perderebbero circa 7 centesimi di
euro/kg; il bilancio sarebbe pur sempre in positivo.
Certo la cosa andrebbe attentamente studiata, non bastano questi quattro «conti della serva», poi ci sono gli effetti sugli equilibri territoriali, le ipotesi circa le conseguenze sui consumi, ecc. In ogni caso non è immaginabile un’uscita immediata dal sistema, per una serie di ragioni, tra cui non ultimo il problema del risarcimento ai produttori. Calcolando per semplicità che il valore medio delle quote in Europa sia pari alla metà di quello rilevato in Olanda, ne viene che per indennizzare i produttori servirebbero circa 64 miliardi di euro ossia due Finanziarie del ministro Tommaso Padoa Schioppa.
Chiaro quindi che un’uscita dal sistema prima del 2015 non è politicamente proponibile (e nessuno la propone seriamente): per arrivarci si dovrà «svuotare» gradualmente le quote del loro valore. Avanti dunque, con giudizio.
 

Sommario rivista Daniele Rama


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