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L'Informatore Agrario
Sommario rivista Approfondimento
   
34
 8-14 Set.

  2006
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Speciale ricerca genoma della vite Speciale ricerca genoma della vite

Il futuro della viticoltura nelle mani della genetica

La ricerca italiana sul genoma della vite – rappresentata quasi interamente dai Progetti raccontati nello Speciale – non ha eguali nel mondo, ma rischia di non produrre risultati trasferibili alla viticoltura del nostro Paese

II risultati delle ricerche condotte in questi anni attraverso i marcatori molecolari del DNA ci hanno aperto gli occhi sull’origine di alcune varietà di vite: non solo il risultato di processi di domesticazione di viti selvatiche iniziati nel Neolitico o per l’arrivo di qualche seme portato dai coloni della Magna Grecia, ma soprattutto per l’iniziativa provvidenziale dei nostri antenati che in molte parti dell’Europa, in tempi diversi, hanno selezionato i frutti di incroci, in gran parte spontanei presenti nei vigneti primigenei. Si ricorda brevemente l’origine dello Chardonnay e di circa altri 80 vitigni del bacino renano e del Danubio settentrionale dall’incrocio di alcune varietà autoctone con il Gouais o gli inspiegabili rapporti di parentela tra lo Syrah e il Teroldego o dei genitori del Sangiovese, vitigno toscano per eccellenza, identificati nell’Italia meridionale. In poche parole si è trattato di un inconsapevole e formidabile progetto di miglioramento genetico che ha reso la vite, la specie coltivata, più ricca di variabilità. Ma oggi la parola «genetica» incute paura a molti e non solo per la confusione che si fa tra metodi di miglioramento genetico tradizionali e ogm, ma perché come nel passato le scoperte di Mendel e di Darwin hanno diviso gli uomini in sostenitori entusiasti dei risultati della genetica e in detrattori altrettanto accaniti. Basti ricordare le difficoltà che incontrarono i tecnici del tempo a convincere i viticoltori della necessità dell’innesto per contrastare la fillossera: ai paventati pericoli del deprezzamento della qualità del vino dovuto al piede americano, si associò la grande incognita rappresentata dall’innovazione della barbatella innestata e dalla nuova viticoltura che sarebbe da questa nata. Ma senza la creazione dei portinnesti resistenti per incrocio oggi, in gran parte del mondo, non si riuscirebbe a produrre una goccia di vino. Per non parlare degli innumerevoli tentativi, purtroppo vani, di realizzare la vite «ideale», capace cioè di difendersi dalle malattie crittogamiche e di produrre uve di qualità, sogno di tutti i ricercatori che per questo si sono cimentati in tutto il mondo da più di 150 anni.
Ebbene questo sogno sta per realizzarsi, o meglio, potrebbe realizzarsi se vicino agli impensabili, fino a qualche anno fa, progressi compiuti nella conoscenza delle potenzialità del DNA della vite ci fosse, da parte del mondo della produzione, un minimo di collaborazione e di sostegno. Di miglioramento genetico della vite per incrocio in Italia, in modo quasi hobbistico da parte di qualche Università e di alcuni Centri di ricerca, se ne è sempre fatto. Basti ricordare i risultati ottenuti da Manzoni a Conegliano, da Rigotti a San Michele all’Adige, da Dalmasso a Torino e più recentemente dalle Università di Piacenza, Firenze, Bologna e Milano. Purtroppo in una viticoltura dirigistica come quella europea non è facile introdurre, come accade in frutticoltura o orticoltura, nuovi ottenimenti da incrocio.
I contributi che sono riportati in questo Speciale, presentati a Milano al Miwine nel giugno scorso nel corso di un convegno, coordinato da Osvaldo Failla, purtroppo disertato dagli operatori vitivinicoli, dimostrano che il livello della ricerca italiana in questo settore non ha eguali nel mondo per strutture scientifiche, disponibilità finanziarie e qualità dei ricercatori, ma rischia di non produrre risultati trasferibili alla viticoltura del nostro Paese e di dare invece paradossalmente un vantaggio ai nostri più importanti competitori del Nuovo Mondo.
Forse alla gran parte dei viticoltori italiani sfugge il significato di queste affermazioni e soprattutto come non sia facile comprendere il rapporto tra conoscenze del DNA e ricadute pratiche. Ebbene, in poche parole, dall’analisi del DNA ci aspettiamo di sapere dove sono sui cromosomi i geni che hanno degli effetti importanti sulla composizione del mosto, sulla tolleranza alle malattie, sulle capacità di adattamento della pianta alle condizioni pedoclimatiche. La posizione di questi geni, rivelata da specifici marcatori molecolari, consente di accelerare i risultati del miglioramento genetico per incrocio perché si può capire in una piantina di poche settimane quali saranno le sue caratteristiche vegeto-produttive molto prima che queste si manifestino in una pianta adulta. Ciò significa testare moltissimi individui con un grande risparmio di tempo e di risorse. Quello che i viticoltori del passato hanno fatto nel corso di centinaia di anni, ora è possibile realizzarlo in pochissimi anni.
Un altro aspetto merita di essere valutato. La stragrande maggioranza dei 10.000 vitigni che sono attualmente disponibili sono stati selezionati nel passato per necessità produttive, enologiche e di consumo molto diverse da quelle di oggi. Il vitigno è lo strumento più efficace per incidere sulla qualità di un vino. Come si può quindi conciliare l’esigenza continua di dare nuovi stimoli al consumatore se si usano vitigni vecchi centinaia di anni? Sarebbe come pensare di produrre per il mercato moderno pomodoro, peperoni, pesche, albicocche, ecc. con le varietà dell’800. È facile obiettare a questa proposta dicendo che il vino è un’altra cosa, che il legame tra vitigno e territorio non può essere alterato, che i vini a denominazione di origine sono un patrimonio della tradizione. Ma cosa rappresentano questi vini in termini produttivi? Il 20-30 %, e il resto è vino senza storia né origine dove il costo di produzione e alcune caratteristiche sensoriali renderebbero conveniente la coltivazione di varietà più stabili, meno sensibili alle malattie, con migliori capacità di accumulo di alcuni metaboliti nella bacca, più adatte alla meccanizzazione integrale. Il problema di fondo non è però scientifico, ma è rappresentato dal tradizionalismo del mondo viticolo e non solo italiano, dove l’innovazione è vista come sovversiva: scassa, modifica, sovverte abitudini di lavoro consolidate che nessuno vuole cambiare.
Due sono a questo proposito le priorità: una rappresentata dall’avvio di un grande progetto nazionale di miglioramento genetico della vite che abbia però dei connotati regionali (per la presenza di vitigni diversi, per i tanti stili di vino, per le varie interazioni con l’ambiente, per la presenza di stress diversi, ecc.) espressione del lavoro congiunto di tutti i Centri di ricerca e delle Università; l’Istituto agrario di San Michele che da circa 20 anni ha sviluppato un importante programma di incrocio potrebbe fornire l’esperienza e le strategie per guadagnare un po’ di tempo negli incroci ricorrenti attraverso la messa a disposizione di alcuni incroci già testati. L’interfaccia di questo gruppo di ricerca potrebbero essere le Regioni, la Sicilia in primis, per l’importanza della produzione e per le competenze dei suoi tecnici regionali. L’altra è la disponibilità del mondo produttivo e delle Pubbliche amministrazioni ad accogliere i frutti di questo lavoro nella convinzione che questo potrà portare all’economia vitivinicola italiana grandi vantaggi economici. Non va dimenticato il miglioramento dei portinnesti, soprattutto nei confronti degli stress biotici (resistenza ai virus, ai marciumi radicali, ecc.) e abiotici (resistenza alla siccità, alle carenze minerali, alla salinità, ecc.), aspetti che sono stati quasi ignorati dai genetisti della fine 800, ma che ora sono sempre più attuali e in attesa di una soluzione che può essere solo genetica.
Per aiutare a comprendere il significato di queste affermazione voglio concludere con un paragone che rappresenta un evento importante nella storia della musica. Quando Mozart nel dicembre del 1782 a Vienna suonò per la prima volta i sei quartetti per archi dedicati a Haydn e il particolare il primo, il K 387, si rese conto da un lato della grande novità che queste composizioni rappresentavano e dall’altro della difficoltà che avrebbero avuto nell’essere accettate dal pubblico. Capisce, infatti, che lo stridio di due note troppo vicine dei due violini accompagnate dalla dolcezza della viola rendono la composizione difficile benché ricca di novità, destinata a suscitare disagio come tutte le innovazioni. Eppure con l’invenzione delle dissonanze inaugura la musica moderna e dodecafonica di Schoenberg.
Così la ricerca in viticoltura nell’era della genomica, della proteomica e della metabolomica non sarà più la stessa e da un approccio empirico, di analisi di causa ed effetto, sta passando ad un approccio deterministico con il quale finalmente si potrà andare alla causa dei fenomeni. Saprà il mondo della produzione cogliere questa grande opportunità?

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Attilio Scienza 



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