Il futuro della viticoltura nelle mani della genetica
La ricerca italiana sul genoma della vite – rappresentata
quasi interamente dai Progetti raccontati nello Speciale – non ha eguali nel
mondo, ma rischia di non produrre risultati trasferibili alla viticoltura
del nostro Paese
II risultati delle ricerche condotte in questi anni
attraverso i marcatori molecolari del DNA ci hanno aperto gli occhi
sull’origine di alcune varietà di vite: non solo il risultato di processi di
domesticazione di viti selvatiche iniziati nel Neolitico o per l’arrivo di
qualche seme portato dai coloni della Magna Grecia, ma soprattutto per
l’iniziativa provvidenziale dei nostri antenati che in molte parti
dell’Europa, in tempi diversi, hanno selezionato i frutti di incroci, in
gran parte spontanei presenti nei vigneti primigenei. Si ricorda brevemente
l’origine dello Chardonnay e di circa altri 80 vitigni del bacino renano e
del Danubio settentrionale dall’incrocio di alcune varietà autoctone con il
Gouais o gli inspiegabili rapporti di parentela tra lo Syrah e il Teroldego
o dei genitori del Sangiovese, vitigno toscano per eccellenza, identificati
nell’Italia meridionale. In poche parole si è trattato di un inconsapevole e
formidabile progetto di miglioramento genetico che ha reso la vite, la
specie coltivata, più ricca di variabilità. Ma oggi la parola «genetica»
incute paura a molti e non solo per la confusione che si fa tra metodi di
miglioramento genetico tradizionali e ogm, ma perché come nel passato le
scoperte di Mendel e di Darwin hanno diviso gli uomini in sostenitori
entusiasti dei risultati della genetica e in detrattori altrettanto
accaniti. Basti ricordare le difficoltà che incontrarono i tecnici del tempo
a convincere i viticoltori della necessità dell’innesto per contrastare la
fillossera: ai paventati pericoli del deprezzamento della qualità del vino
dovuto al piede americano, si associò la grande incognita rappresentata
dall’innovazione della barbatella innestata e dalla nuova viticoltura che
sarebbe da questa nata. Ma senza la creazione dei portinnesti resistenti per
incrocio oggi, in gran parte del mondo, non si riuscirebbe a produrre una
goccia di vino. Per non parlare degli innumerevoli tentativi, purtroppo
vani, di realizzare la vite «ideale», capace cioè di difendersi dalle
malattie crittogamiche e di produrre uve di qualità, sogno di tutti i
ricercatori che per questo si sono cimentati in tutto il mondo da più di 150
anni.
Ebbene questo sogno sta per realizzarsi, o meglio, potrebbe realizzarsi se
vicino agli impensabili, fino a qualche anno fa, progressi compiuti nella
conoscenza delle potenzialità del DNA della vite ci fosse, da parte del
mondo della produzione, un minimo di collaborazione e di sostegno. Di
miglioramento genetico della vite per incrocio in Italia, in modo quasi
hobbistico da parte di qualche Università e di alcuni Centri di ricerca, se
ne è sempre fatto. Basti ricordare i risultati ottenuti da Manzoni a
Conegliano, da Rigotti a San Michele all’Adige, da Dalmasso a Torino e più
recentemente dalle Università di Piacenza, Firenze, Bologna e Milano.
Purtroppo in una viticoltura dirigistica come quella europea non è facile
introdurre, come accade in frutticoltura o orticoltura, nuovi ottenimenti da
incrocio.
I contributi che sono riportati in questo Speciale, presentati a Milano al
Miwine nel giugno scorso nel corso di un convegno, coordinato da Osvaldo
Failla, purtroppo disertato dagli operatori vitivinicoli, dimostrano che il
livello della ricerca italiana in questo settore non ha eguali nel mondo per
strutture scientifiche, disponibilità finanziarie e qualità dei ricercatori,
ma rischia di non produrre risultati trasferibili alla viticoltura del
nostro Paese e di dare invece paradossalmente un vantaggio ai nostri più
importanti competitori del Nuovo Mondo.
Forse alla gran parte dei viticoltori italiani sfugge il significato di
queste affermazioni e soprattutto come non sia facile comprendere il
rapporto tra conoscenze del DNA e ricadute pratiche. Ebbene, in poche
parole, dall’analisi del DNA ci aspettiamo di sapere dove sono sui cromosomi
i geni che hanno degli effetti importanti sulla composizione del mosto,
sulla tolleranza alle malattie, sulle capacità di adattamento della pianta
alle condizioni pedoclimatiche. La posizione di questi geni, rivelata da
specifici marcatori molecolari, consente di accelerare i risultati del
miglioramento genetico per incrocio perché si può capire in una piantina di
poche settimane quali saranno le sue caratteristiche vegeto-produttive molto
prima che queste si manifestino in una pianta adulta. Ciò significa testare
moltissimi individui con un grande risparmio di tempo e di risorse. Quello
che i viticoltori del passato hanno fatto nel corso di centinaia di anni,
ora è possibile realizzarlo in pochissimi anni.
Un altro aspetto merita di essere valutato. La stragrande maggioranza dei
10.000 vitigni che sono attualmente disponibili sono stati selezionati nel
passato per necessità produttive, enologiche e di consumo molto diverse da
quelle di oggi. Il vitigno è lo strumento più efficace per incidere sulla
qualità di un vino. Come si può quindi conciliare l’esigenza continua di
dare nuovi stimoli al consumatore se si usano vitigni vecchi centinaia di
anni? Sarebbe come pensare di produrre per il mercato moderno pomodoro,
peperoni, pesche, albicocche, ecc. con le varietà dell’800. È facile
obiettare a questa proposta dicendo che il vino è un’altra cosa, che il
legame tra vitigno e territorio non può essere alterato, che i vini a
denominazione di origine sono un patrimonio della tradizione. Ma cosa
rappresentano questi vini in termini produttivi? Il 20-30 %, e il resto è
vino senza storia né origine dove il costo di produzione e alcune
caratteristiche sensoriali renderebbero conveniente la coltivazione di
varietà più stabili, meno sensibili alle malattie, con migliori capacità di
accumulo di alcuni metaboliti nella bacca, più adatte alla meccanizzazione
integrale. Il problema di fondo non è però scientifico, ma è rappresentato
dal tradizionalismo del mondo viticolo e non solo italiano, dove
l’innovazione è vista come sovversiva: scassa, modifica, sovverte abitudini
di lavoro consolidate che nessuno vuole cambiare.
Due sono a questo proposito le priorità: una rappresentata dall’avvio di un
grande progetto nazionale di miglioramento genetico della vite che abbia
però dei connotati regionali (per la presenza di vitigni diversi, per i
tanti stili di vino, per le varie interazioni con l’ambiente, per la
presenza di stress diversi, ecc.) espressione del lavoro congiunto di tutti
i Centri di ricerca e delle Università; l’Istituto agrario di San Michele
che da circa 20 anni ha sviluppato un importante programma di incrocio
potrebbe fornire l’esperienza e le strategie per guadagnare un po’ di tempo
negli incroci ricorrenti attraverso la messa a disposizione di alcuni
incroci già testati. L’interfaccia di questo gruppo di ricerca potrebbero
essere le Regioni, la Sicilia in primis, per l’importanza della produzione e
per le competenze dei suoi tecnici regionali. L’altra è la disponibilità del
mondo produttivo e delle Pubbliche amministrazioni ad accogliere i frutti di
questo lavoro nella convinzione che questo potrà portare all’economia
vitivinicola italiana grandi vantaggi economici. Non va dimenticato il
miglioramento dei portinnesti, soprattutto nei confronti degli stress
biotici (resistenza ai virus, ai marciumi radicali, ecc.) e abiotici
(resistenza alla siccità, alle carenze minerali, alla salinità, ecc.),
aspetti che sono stati quasi ignorati dai genetisti della fine 800, ma che
ora sono sempre più attuali e in attesa di una soluzione che può essere solo
genetica.
Per aiutare a comprendere il significato di queste affermazione voglio
concludere con un paragone che rappresenta un evento importante nella storia
della musica. Quando Mozart nel dicembre del 1782 a Vienna suonò per la
prima volta i sei quartetti per archi dedicati a Haydn e il particolare il
primo, il K 387, si rese conto da un lato della grande novità che queste
composizioni rappresentavano e dall’altro della difficoltà che avrebbero
avuto nell’essere accettate dal pubblico. Capisce, infatti, che lo stridio
di due note troppo vicine dei due violini accompagnate dalla dolcezza della
viola rendono la composizione difficile benché ricca di novità, destinata a
suscitare disagio come tutte le innovazioni. Eppure con l’invenzione delle
dissonanze inaugura la musica moderna e dodecafonica di Schoenberg.
Così la ricerca in viticoltura nell’era della genomica, della proteomica e
della metabolomica non sarà più la stessa e da un approccio empirico, di
analisi di causa ed effetto, sta passando ad un approccio deterministico con
il quale finalmente si potrà andare alla causa dei fenomeni. Saprà il mondo
della produzione cogliere questa grande opportunità?
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