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L'Informatore Agrario
Sommario rivista Approfondimento
   
34
 8-14 Set.

  2006
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Editoriale

Fare agricoltura, arte da riscoprire
Vittorio A. Gallerani

L’imprenditore orientato al mercato deve guardare con rinnovata attenzione all’impiego in azienda delle tecnologie avanzate, per tornare a rivendicare con orgoglio una funzione sociale che oggi è sempre meno riconosciuta

Ferragosto da poco trascorso sollecita a considerare la singolarità del mestiere di fare agricoltura: mentre tutti sono intenti a svagarsi nelle preferite località marine e montane o a viaggiare con aerei, navi e automobili per visitare luoghi esotici e lontani, gli agricoltori sono alle prese con le quotidiane cure dei campi e con le solite preoccupazioni per uno stentato mercato delle pesche, che si salva solo perché fortunatamente la grandine e la scarsa produzione dei Paesi concorrenti hanno dato una mano, o per il raccolto del mais in parte compromesso dalla siccità.
Che l’agricoltura italiana non riesca a stare al passo con i tempi sembra non essere un fenomeno stagionale, ma una condizione che dura tutto l’anno e che tende ad accentuarsi nel tempo. Spesso mi capita di incontrare in aereoporto qualche conoscente, imprenditore di aziende meccaniche, chimiche o alimentari, anche di piccole dimensioni, in partenza per New York, Tokio, Shanghai o Buenos Aires. Mi parlano con entusiasmo e orgoglio della conquista di nuovi mercati, di innovazioni tecnologiche, di nuovi prodotti, di interessanti fusioni e di convenienti delocalizzazioni. Per molti di loro la globalizzazione si è rivelata una severa palestra che comincia a dare i suoi frutti. Perché per l’agricoltura, l’internazionalizzazione delle economie porta solo lo svantaggio di una competizione all’apparenza imbattibile? Molte sono le risposte: la colpa è delle caratteristiche dei prodotti agricoli, della struttura delle aziende, della mentalità degli imprenditori, ecc. Ci si chiede se esistano strategie commerciali per la penetrazione nei mercati emergenti in grado di intercettare la domanda dei nuovi ricchi, quali le scelte «politiche» che possano consentire all’Italia agricola di approfittare della globalizzazione.
Girando per le campagne è oggi possibile cogliere alcuni indizi di uno stato di disagio, che talvolta sembra sfociare in una resa rassegnata: fabbricati rurali ormai in disuso da anni e abbandonati in miserevoli condizioni, programmi di concimazione o di difesa antiparassitaria malamente scarabocchiati su calendari che espongono ragazze discinte o trascritti su sgualciti quaderni riposti in qualche cassetto polveroso di un tavolo sgangherato, campi a coltivazioni biologiche infestati da erbacce, oasi naturalistiche con recinzioni in ferro arrugginito e vasche da bagno utilizzate come serbatoi d’acqua.
Mi vado convincendo che questi segni debbano essere interpretati non come effetto, ma come causa delle difficoltà in cui versa oggi l’agricoltura italiana in conseguenza di un crescente rifiuto della tecnologia. L’agricoltura «ambientale» si dibatte nelle pastoie burocratiche alla continua ricerca delle soluzioni più comode e meno costose per catturare i contributi pubblici. All’agricoltura orientata al mercato è scarsamente riconosciuta la funzione sociale, quando non è addirittura colpevolizzata per la ricerca delle soluzioni tecnologiche più avanzate, considerate dai più strumenti per produrre beni non richiesti a spese della collettività e a danno dell’ambiente. Tutte cose di cui non andare orgogliosi, piuttosto da tenere nascoste.
L’aspetto più paradossale è che nel momento in cui tutti i programmi politici puntano sulla qualità quale strategia per la sopravvivenza e lo sviluppo dell’agricoltura, in molte realtà ci si imbatte in uno scadimento qualitativo preoccupante. Ciò che occorre è un agricoltore capace di comprendere la tecnologia e di adattarla alla propria terra e in grado di inventare un personale stile di conduzione aziendale da proporre con orgoglio alla società. La considerazione di cui ha goduto l’agricoltura nel passato più o meno recente viene spesso erroneamente interpretato come mero clientelismo politico, quando non addirittura come un fenomeno di un non molto commendevole voto di scambio. In realtà il peso che il mondo agricolo sapeva esercitare nella politica nazionale ed europea era motivato dalla forza dei valori sociali, civili, morali e religiosi di cui era portatore.
Solamente dalla riscoperta dell’arte di fare agricoltura, basata su solide capacità tecniche e morali, può formarsi una rinnovata lobby agraria in grado di imporsi all’attenzione dei centri di potere e di decisione nazionali, comunitari e internazionali e di rimuovere quella patina di indifferenza, quando non di ostilità, con la quale oggi è considerata. L’esistenza di una qualsiasi attività produttiva non può essere condizionata esclusivamente a un mero calcolo della convenienza economica, ma deve anche essere portatrice di forti e condivisi valori morali.
Come non pensare che all’origine dell’attuale questione agraria ci siano i tanti, troppi cattivi maestri?

Sommario rivista Vittorio A. Gallerani


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