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Fare agricoltura, arte da riscoprire |
L’imprenditore orientato al mercato deve guardare con rinnovata
attenzione all’impiego in azienda delle tecnologie avanzate, per tornare a
rivendicare con orgoglio una funzione sociale che oggi è sempre meno
riconosciuta
Ferragosto da poco trascorso sollecita a considerare la
singolarità del mestiere di fare agricoltura: mentre tutti sono intenti a
svagarsi nelle preferite località marine e montane o a viaggiare con aerei,
navi e automobili per visitare luoghi esotici e lontani, gli agricoltori
sono alle prese con le quotidiane cure dei campi e con le solite
preoccupazioni per uno stentato mercato delle pesche, che si salva solo
perché fortunatamente la grandine e la scarsa produzione dei Paesi
concorrenti hanno dato una mano, o per il raccolto del mais in parte
compromesso dalla siccità.
Che l’agricoltura italiana non riesca a stare al passo con i tempi sembra
non essere un fenomeno stagionale, ma una condizione che dura tutto l’anno e
che tende ad accentuarsi nel tempo. Spesso mi capita di incontrare in
aereoporto qualche conoscente, imprenditore di aziende meccaniche, chimiche
o alimentari, anche di piccole dimensioni, in partenza per New York, Tokio,
Shanghai o Buenos Aires. Mi parlano con entusiasmo e orgoglio della
conquista di nuovi mercati, di innovazioni tecnologiche, di nuovi prodotti,
di interessanti fusioni e di convenienti delocalizzazioni. Per molti di loro
la globalizzazione si è rivelata una severa palestra che comincia a dare i
suoi frutti. Perché per l’agricoltura, l’internazionalizzazione delle
economie porta solo lo svantaggio di una competizione all’apparenza
imbattibile? Molte sono le risposte: la colpa è delle caratteristiche dei
prodotti agricoli, della struttura delle aziende, della mentalità degli
imprenditori, ecc. Ci si chiede se esistano strategie commerciali per la
penetrazione nei mercati emergenti in grado di intercettare la domanda dei
nuovi ricchi, quali le scelte «politiche» che possano consentire all’Italia
agricola di approfittare della globalizzazione.
Girando per le campagne è oggi possibile cogliere alcuni indizi di uno stato
di disagio, che talvolta sembra sfociare in una resa rassegnata: fabbricati
rurali ormai in disuso da anni e abbandonati in miserevoli condizioni,
programmi di concimazione o di difesa antiparassitaria malamente
scarabocchiati su calendari che espongono ragazze discinte o trascritti su
sgualciti quaderni riposti in qualche cassetto polveroso di un tavolo
sgangherato, campi a coltivazioni biologiche infestati da erbacce, oasi
naturalistiche con recinzioni in ferro arrugginito e vasche da bagno
utilizzate come serbatoi d’acqua.
Mi vado convincendo che questi segni debbano essere interpretati non come
effetto, ma come causa delle difficoltà in cui versa oggi l’agricoltura
italiana in conseguenza di un crescente rifiuto della tecnologia.
L’agricoltura «ambientale» si dibatte nelle pastoie burocratiche alla
continua ricerca delle soluzioni più comode e meno costose per catturare i
contributi pubblici. All’agricoltura orientata al mercato è scarsamente
riconosciuta la funzione sociale, quando non è addirittura colpevolizzata
per la ricerca delle soluzioni tecnologiche più avanzate, considerate dai
più strumenti per produrre beni non richiesti a spese della collettività e a
danno dell’ambiente. Tutte cose di cui non andare orgogliosi, piuttosto da
tenere nascoste.
L’aspetto più paradossale è che nel momento in cui tutti i programmi
politici puntano sulla qualità quale strategia per la sopravvivenza e lo
sviluppo dell’agricoltura, in molte realtà ci si imbatte in uno scadimento
qualitativo preoccupante. Ciò che occorre è un agricoltore capace di
comprendere la tecnologia e di adattarla alla propria terra e in grado di
inventare un personale stile di conduzione aziendale da proporre con
orgoglio alla società. La considerazione di cui ha goduto l’agricoltura nel
passato più o meno recente viene spesso erroneamente interpretato come mero
clientelismo politico, quando non addirittura come un fenomeno di un non
molto commendevole voto di scambio. In realtà il peso che il mondo agricolo
sapeva esercitare nella politica nazionale ed europea era motivato dalla
forza dei valori sociali, civili, morali e religiosi di cui era portatore.
Solamente dalla riscoperta dell’arte di fare agricoltura, basata su solide
capacità tecniche e morali, può formarsi una rinnovata lobby agraria in
grado di imporsi all’attenzione dei centri di potere e di decisione
nazionali, comunitari e internazionali e di rimuovere quella patina di
indifferenza, quando non di ostilità, con la quale oggi è considerata.
L’esistenza di una qualsiasi attività produttiva non può essere condizionata
esclusivamente a un mero calcolo della convenienza economica, ma deve anche
essere portatrice di forti e condivisi valori morali.
Come non pensare che all’origine dell’attuale questione agraria ci siano i
tanti, troppi cattivi maestri?
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