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L'Informatore Agrario
Sommario rivista Approfondimento
 
31
 28 Lug.-3 Ago.

  2006
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Attualità POLITICA

Nord senza acqua e senza strategie

Emergenza idrica sempre più grave nell’Italia settentrionale

La fragilità del sistema idrico dell’Italia settentrionale unita ai cambiamenti climatici che hanno caratterizzato gli ultimi anni impongono una gestione diversa delle risorse idriche che possa prevenire il ciclico ripetersi di situazioni di emergenza come quella che stanno vivendo gli agricoltori

A partire da quest’anno, il termine emergenza avrà un nuovo significato: non più un’evenienza improvvisa cui dare sollecita risposta, ma un accadimento prevedibile per il quale rimandare continuamente le soluzioni. Come infatti interpretare diversamente l’emergenza siccità 2006 e l’impreparazione dimostrata, nonostante le precedenti esperienze del 2003 e del 2005? È vero che fino a metà maggio nulla faceva presagire l’attuale critica congiuntura, ma è altrettanto certo che la fragilità del sistema idrico dell’Italia settentrionale era (ed è)
a tutti nota, così come è evidente la mancanza di un disegno strategico per ovviare ai problemi.
La domanda è d’obbligo: servirà l’esperienza 2006 a evitare il nuovo ripetersi di simili emergenze? La speranza farebbe dire di sì, il vissuto ne fa molto dubitare, se è vero che l’Anbi (Associazione nazionale bonifiche) si vede da mesi bloccati i finanziamenti già impegnati per progetti immediatamente cantierabili, nell’ambito del Piano irriguo nazionale, per una questione formale sollevata in relazione a un elenco redatto dall’Istat, dubbioso sul ruolo di ente pubblico (!) dei Consorzi di bonifica. Ma tant’è, si è perso tempo prezioso per dare una prima, seppur parziale, risposta alle esigenze del mondo agricolo, attraverso l’ottimizzazione d’uso della risorsa, con i molteplici interessi oggi gravanti sul «bene acqua».
Stessa indolenza si dimostra nella gestione complessiva del patrimonio idrico, come dimostra la vicenda del fiume Po, per il quale la cabina di regia è stata attivata a emergenza conclamata, nonostante i ripetuti inviti, prima e adesso, a farne uno strumento permanente di concertazione. È evidente che, in carenza di autorità (complice la vacatio derivata dal Codice ambientale), ognuno tutela i propri interessi e i risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Poi c’è l’impalpabile sensazione di controlli inesistenti o lacunosi: condivisa una decisione, chi verifica che poi venga correttamente applicata?
Nell’arso Delta polesano (dove si stima la perdita di circa l’85% della produzione agricola) molti sono ancora a chiedersi che fine abbiano fatto i previsti ulteriori rilasci d’acqua dai laghi lombardi. Il Po, giorno dopo giorno, segna minimi storici, cui fanno da contraltare record assoluti di intrusione salina, capaci non solo di «annientare» i raccolti, causa l’impossibilità di irrigare, ma anche di arrecare incalcolabili danni all’equilibrio ambientale. Il paradosso è che il grande fiume, oggi ridotto a rigagnolo, diventerà (già si sa) un enorme pericolo alla prossima piena (che prima o poi arriverà) a causa di un alveo sempre più basso e incavato, dove le acque aumentano di velocità per l’impossibilità di espandersi nelle golene. Il «grande malato» Po ha bisogno di essere curato subito, prima che si piangano lacrime più amare di quelle, già tristi, versate per l’agricoltura senz’acqua.
Tanti interessi da comporre
L’odierna situazione idrica nel Nord Italia è facilmente descrivibile: a fronte dei cambiamenti climatici in atto (estati particolarmente calde e precoci con accentuata evapostraspirazione e maggiori necessità irrigue per le colture) le odierne infrastrutture idriche naturali e artificiali sono insufficienti a garantire tutti gli interessi gravanti sul bene acqua (umani, agricoli, produttivi, energetici, ambientali, turistici, ecc.), fermo restando che le diffuse piogge primaverili-estive paiono essere destinate al libro dei ricordi.
In questa condizione dove, nonostante le normative, vige la regola «chi prima arriva meglio alloggia», è evidente che la situazione peggiora mano a mano che dalle sorgenti ci si avvicina alle foci: così, nella Pianura Padana, se la situazione è preoccupante in Piemonte, diventa seria in Lombardia, grave nel Veneto e in Emilia-Romagna, drammatica in Polesine.
Analogamente succede per i corsi d’acqua del Friuli Venezia Giulia dove, comunque, si ha la riserva di alcuni grandi bacini artificiali. È questa l’unica strada da percorrere sull’esempio di quanto realizzato nell’Italia meridionale e insulare, dove ripetute e drammatiche siccità hanno portato a una grande attenzione per la risorsa acqua e alla realizzazione di una rete di invasi che oggi, grazie anche a un paio di inverni particolarmente piovosi, garantiscono per ora tranquillità di approvvigionamento idrico. Al Nord, invece, manca ancora tale sensibilità e ogni scelta è condizionata dalla «sindrome Vajont»; da qui, la richiesta dell’Associazione nazionale bonifiche e irrigazioni di una «rete» di piccoli bacini, capaci di trattenere l’acqua quando piove e rilasciarla nei momenti di necessità. Particolarmente sensibile a tale prospettiva è il Veneto, ricco di cave che, una volta dismesse, potrebbero essere utilizzate all’uopo. Ancora una volta, però, le scelte latitano e solo recentemente la Regione ha autorizzato una sperimentazione nel Trevigiano, dopo anni di richieste. È una questione di cultura e, purtroppo, di interessi, giacché spesso sono le Amministrazioni comunali a osteggiare simili ipotesi, affascinate da altre possibilità di utilizzo più redditizie.
È vero però che, senza percorrere tale strada, sarà impossibile trovare un’efficace soluzione al conflitto d’interessi fra le popolazioni montane, detentrici della «disponibilità» della risorsa idrica, e l’assetata agricoltura di pianura, oggi condizionato anche dalle scelte commerciali delle società idroelettriche. Senza un piano di accumulo idrico in pianura, è null’altro che un «pannicello caldo» la riduzione media del 15% imposta dalla Regione Veneto ai Consorzi di bonifica operanti sul fiume Piave: è un provvedimento di principio che ben poco incide sui laghi montani (molti dei quali desolantemente «in secca») ma condiziona sensibilmente gli apporti irrigui a coltivazioni delicate quali vite e radicchio.
La politica, insomma, non ha ancora assunto la «questione idrica» come centrale nel processo di sviluppo, nonostante i continui richiami lanciati dalla natura: dalla siccità all’alluvione di Vibo Valentia è un unico «filo rosso», che non consente ulteriori proroghe.

 

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