POLITICA |
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Nord senza acqua e senza strategie |
Emergenza idrica sempre più grave nell’Italia
settentrionale
La fragilità del sistema idrico
dell’Italia settentrionale unita ai cambiamenti climatici che hanno
caratterizzato gli ultimi anni impongono una gestione diversa delle risorse
idriche che possa prevenire il ciclico ripetersi di situazioni di emergenza
come quella che stanno vivendo gli agricoltori
A partire da quest’anno, il termine emergenza avrà un
nuovo significato: non più un’evenienza improvvisa cui dare sollecita
risposta, ma un accadimento prevedibile per il quale rimandare continuamente
le soluzioni. Come infatti interpretare diversamente l’emergenza siccità
2006 e l’impreparazione dimostrata, nonostante le precedenti esperienze del
2003 e del 2005? È vero che fino a metà maggio nulla faceva presagire
l’attuale critica congiuntura, ma è altrettanto certo che la fragilità del
sistema idrico dell’Italia settentrionale era (ed è)
a tutti nota, così come è evidente la mancanza di un disegno strategico per
ovviare ai problemi.
La domanda è d’obbligo: servirà l’esperienza 2006 a evitare il nuovo
ripetersi di simili emergenze? La speranza farebbe dire di sì, il vissuto ne
fa molto dubitare, se è vero che l’Anbi (Associazione nazionale bonifiche)
si vede da mesi bloccati i finanziamenti già impegnati per progetti
immediatamente cantierabili, nell’ambito del Piano irriguo nazionale, per
una questione formale sollevata in relazione a un elenco redatto dall’Istat,
dubbioso sul ruolo di ente pubblico (!) dei Consorzi di bonifica. Ma tant’è,
si è perso tempo prezioso per dare una prima, seppur parziale, risposta alle
esigenze del mondo agricolo, attraverso l’ottimizzazione d’uso della
risorsa, con i molteplici interessi oggi gravanti sul «bene acqua».
Stessa indolenza si dimostra nella gestione complessiva del patrimonio
idrico, come dimostra la vicenda del fiume Po, per il quale la cabina di
regia è stata attivata a emergenza conclamata, nonostante i ripetuti inviti,
prima e adesso, a farne uno strumento permanente di concertazione. È
evidente che, in carenza di autorità (complice la vacatio derivata
dal Codice ambientale), ognuno tutela i propri interessi e i risultati sono
sotto gli occhi di tutti.
Poi c’è l’impalpabile sensazione di controlli inesistenti o lacunosi:
condivisa una decisione, chi verifica che poi venga correttamente applicata?
Nell’arso Delta polesano (dove si stima la perdita di circa l’85% della
produzione agricola) molti sono ancora a chiedersi che fine abbiano fatto i
previsti ulteriori rilasci d’acqua dai laghi lombardi. Il Po, giorno dopo
giorno, segna minimi storici, cui fanno da contraltare record assoluti di
intrusione salina, capaci non solo di «annientare» i raccolti, causa
l’impossibilità di irrigare, ma anche di arrecare incalcolabili danni
all’equilibrio ambientale. Il paradosso è che il grande fiume, oggi ridotto
a rigagnolo, diventerà (già si sa) un enorme pericolo alla prossima piena
(che prima o poi arriverà) a causa di un alveo sempre più basso e incavato,
dove le acque aumentano di velocità per l’impossibilità di espandersi nelle
golene. Il «grande malato» Po ha bisogno di essere curato subito, prima che
si piangano lacrime più amare di quelle, già tristi, versate per
l’agricoltura senz’acqua.
Tanti interessi da comporre
L’odierna situazione idrica nel Nord Italia è facilmente descrivibile: a
fronte dei cambiamenti climatici in atto (estati particolarmente calde e
precoci con accentuata evapostraspirazione e maggiori necessità irrigue per
le colture) le odierne infrastrutture idriche naturali e artificiali sono
insufficienti a garantire tutti gli interessi gravanti sul bene acqua
(umani, agricoli, produttivi, energetici, ambientali, turistici, ecc.),
fermo restando che le diffuse piogge primaverili-estive paiono essere
destinate al libro dei ricordi.
In questa condizione dove, nonostante le normative, vige la regola «chi
prima arriva meglio alloggia», è evidente che la situazione peggiora mano a
mano che dalle sorgenti ci si avvicina alle foci: così, nella Pianura
Padana, se la situazione è preoccupante in Piemonte, diventa seria in
Lombardia, grave nel Veneto e in Emilia-Romagna, drammatica in Polesine.
Analogamente succede per i corsi d’acqua del Friuli Venezia Giulia dove,
comunque, si ha la riserva di alcuni grandi bacini artificiali. È questa
l’unica strada da percorrere sull’esempio di quanto realizzato nell’Italia
meridionale e insulare, dove ripetute e drammatiche siccità hanno portato a
una grande attenzione per la risorsa acqua e alla realizzazione di una rete
di invasi che oggi, grazie anche a un paio di inverni particolarmente
piovosi, garantiscono per ora tranquillità di approvvigionamento idrico. Al
Nord, invece, manca ancora tale sensibilità e ogni scelta è condizionata
dalla «sindrome Vajont»; da qui, la richiesta dell’Associazione nazionale
bonifiche e irrigazioni di una «rete» di piccoli bacini, capaci di
trattenere l’acqua quando piove e rilasciarla nei momenti di necessità.
Particolarmente sensibile a tale prospettiva è il Veneto, ricco di cave che,
una volta dismesse, potrebbero essere utilizzate all’uopo. Ancora una volta,
però, le scelte latitano e solo recentemente la Regione ha autorizzato una
sperimentazione nel Trevigiano, dopo anni di richieste. È una questione di
cultura e, purtroppo, di interessi, giacché spesso sono le Amministrazioni
comunali a osteggiare simili ipotesi, affascinate da altre possibilità di
utilizzo più redditizie.
È vero però che, senza percorrere tale strada, sarà impossibile trovare
un’efficace soluzione al conflitto d’interessi fra le popolazioni montane,
detentrici della «disponibilità» della risorsa idrica, e l’assetata
agricoltura di pianura, oggi condizionato anche dalle scelte commerciali
delle società idroelettriche. Senza un piano di accumulo idrico in pianura,
è null’altro che un «pannicello caldo» la riduzione media del 15% imposta
dalla Regione Veneto ai Consorzi di bonifica operanti sul fiume Piave: è un
provvedimento di principio che ben poco incide sui laghi montani (molti dei
quali desolantemente «in secca») ma condiziona sensibilmente gli apporti
irrigui a coltivazioni delicate quali vite e radicchio.
La politica, insomma, non ha ancora assunto la «questione idrica» come
centrale nel processo di sviluppo, nonostante i continui richiami lanciati
dalla natura: dalla siccità all’alluvione di Vibo Valentia è un unico «filo
rosso», che non consente ulteriori proroghe.
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