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Le diavolerie dell’articolo 69 |
L’applicazione che il Ministero vuole dare nel 2007 alle
disposizioni per un’agricoltura di qualità e rispettosa dell’ambiente
contenute nell’articolo 69 del regolamento Ce n. 1782/2003 comporta un
aggravio del carico burocratico e una riduzione della libertà d’impresa che
vanno contro lo spirito stesso dell’ultima riforma della pac
Un proverbio tedesco dice che il diavolo si nasconde sempre
nei dettagli. Questo è un caso emblematico. La riforma del 2003 della
politica agricola comune ha sollevato, a suo tempo, mille discussioni.
L’ostico termine «disaccoppiamento» è entrato nel linguaggio comune delle
campagne, e così parole, date e sigle come Marrakesh, 1994, Wto e via di
seguito.
La sintesi del discorso era la seguente: non si può andare avanti così,
l’agricoltura costa troppo al contribuente e al consumatore, soffoca il
«libero» commercio mondiale, e ancora, i Paesi tropicali non possono
esportare banane e zucchero. In ultima conclusione, il sistema è caro,
troppo complicato e dirigistico.
Le discussioni sono state lunghe, spesso nessuno era d’accordo con l’altro,
ma su una cosa, sia il mondo politico, che gli agricoltori concordavano: il
sistema era troppo pesante. La riforma è stata pertanto accettata, anche se
a malincuore, proprio per le promesse di maggiore agilità e libertà
all’impresa. La Coldiretti ne ha fatto addirittura la propria bandiera: «con
la nuova riforma le aziende troveranno la loro libertà».
Strada facendo emergono però i dettagli e compare il famoso diavolo del
proverbio tedesco.
Per essere preciso mi riferisco all’articolo 69 del regolamento Ce n. 1782
del 2003. Il regolamento ha un titolo innocuo, anche se grammaticalmente
zoppicante: «attuazione facoltativa per tipi specifici di agricoltura per la
produzione di qualità». Più semplicemente significa che lo Stato membro può
trattenere dei fondi e poi ridistribuirli alle aziende che si impegnano per
una agricoltura di qualità o per finalità ambientali.
Tradotto in soldi, prendiamo a caso una azienda, questo contributo è stato
fissato per il 2005 a 47,85 euro/ha. I vincoli sono stati blandi: quantità
di seme sufficiente, esenzione da ogm, e poco di più. Ora il Ministero, in
vista del prossimo anno, vuole porre dei criteri ben più precisi. Dopo mesi
di discussioni sta circolando una bozza di decreto nella quale gli obblighi,
apparentemente, rimangono ragionevoli. Oltre al divieto di colture ogm, per
i seminativi e le bietole l’unica seria condizione è la richiesta di un
avvicendamento almeno biennale. Una coltura non può seguire se stessa.
Questo a molti agricoltori non va giù, come ai maiscoltori lombardi o ai
coltivatori di grano duro meridionali che trovano vantaggiosa la
monocultura.
Condizioni maggiormente restrittive sono previste per gli allevamenti che
vanno dalla iscrizione obbligatoria, ai libri genealogici, al carico di
bestiame per ettaro.
A costo di attirarmi l’ira degli agricoltori, direi che è una bozza
ragionevole. Due sono le mie critiche: la prima riguarda il futuro carico
burocratico. Qualsiasi tecnico di organizzazione professionale, cioè colui
che materialmente compila la domanda pac, sta impallidendo. Tenere traccia,
da un anno all’altro, delle rotazioni richiede un raddoppio della potenza
dei computer, per non parlare di contratti di vendita o affitto terreni, in
cui la precedente semina crea una vincolo futuro. E qui il primo diavoletto
salta fuori. Nessuna semplificazione, ma complicazione, e naturalmente
costi. Fate un po’ di calcoli e vedrete che per distribuire 47 euro/ha se ne
spendono altrettanti. C’è anche chi suggerisce che un sistema come quello
proposto farà sì che molti abbandonino il premio e i pochi rimasti, in
genere piccoli agricoltori, avranno ben di più dei 47 euro/ha.
Veniamo così alla seconda obiezione. La possiamo chiamare così: negazione
della libertà d’impresa. L’imprenditore agricolo è considerato un bambino
irresponsabile. Ad esempio, perché inserire l’obbligo di conservare per
cinque anni i «cartellini» dei sacchi delle sementi non ogm? L’ogm non si
può coltivare, e allora?
Veniamo alle pratiche agronomiche, in particolare all’obbligo della
rotazione. Ogni manuale di agronomia lo consiglia, salvo, condizioni
particolari. Perché stabilirlo per decreto? Se qualcuno sbaglia pagherà di
tasca propria.
Il progresso tecnico per legge non esiste. Dalla città di Birmighan del
1700, culla della rivoluzione industriale, alla Cina del 2006, non si è
fatto e non si fa impresa con obblighi imposti dall’alto, sulle tecnologie
da adottare nelle aziende private. L’apprendimento passa per una sequenza di
errori, successi ed esperienze cumulate. Questa pretesa di insegnare il
mestiere con le leggi, oltre che umiliante, è inutile.
Il Ministero ha esagerato nella burocrazia e nel dirigismo. Non seguiamolo.
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