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L'Informatore Agrario
Sommario rivista Approfondimento
 
26
 22-29 Giu.

  2006
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Attualità POLITICA

Il vino del terzo millennio

Intervista a Paul Wagner, esperto mondiale di marketing

I nuovi mercati che si aprono al consumo del vino, essenziali per i produttori europei, richiedono un approccio e strategie diverse da quelle cui eravamo abituati, soprattutto a livello di comunicazione

Paul Wagner, esperto statunitense di comunicazione e marketing nel settore vitivinicolo, è fondatore della Balzac Communications & Marketing, una delle maggiori società di marketing per l’industria enologica con clienti del livello di Constellation Wines, Unione des Grand Crus de Bordeaux, Vinitaly/Veronafiere.
È docente al Napa Valley College’s viticulture and enology nonché editorialista del periodico Vineyards & Vinery Management Magazine. A lui abbiamo rivolto alcune domande sul mondo del vino.
Dal suo punto di vista qual è la situazione attuale del vino negli Usa?
li Usa sono quasi un’eccezione rispetto ai tradizionali mercati enologici nel mondo: in termini di vino, gli Usa continuano a essere un mercato in sviluppo. Questo significa che i consumatori continuano a imparare qualcosa di basilare riguardo al vino: che cosa bere, quando berlo e con cosa abbinarlo. Ciò vuol dire che vi sono numerose sfide per i produttori ma al tempo stesso enormi opportunità.
In termini di numeri, il mercato Usa continua a segnare una forte crescita. Il consumo pro capite è in crescita del 5% all’anno negli ultimi quattro anni, e al momento non vi è nessun segnale che possa far pensare che questo trend possa diminuire. Le stime oggi mostrano che gli Usa diventeranno il maggior mercato del vino nel mondo entro il 2008.
Analizzando la situazione nelle diverse categorie di prezzi, la crescita è forte un po’ in tutte. Solo i vini ai prezzi più bassi segnalano una crescita più ridotta. La statistica più sorprendente è quella che evidenzia che le donne acquistano più vino degli uomini in ogni categoria di prezzo. Le donne rappresentano, insomma, il segmento più importante di consumatori di vino negli Usa.
Certamente dobbiamo anche ricordare che negli Usa una piccola percentuale, il 14%, consuma l’85% del vino.
Il mercato è fortemente collocato nelle due coste e a Chicago. Il vasto centro del Paese è ancora molto indietro nel consumo di vino; ancora un 50% della popolazione Usa consuma vino occasionalmente, circa una volta al mese, ma il 35% degli statunitensi tutt’oggi non consuma nessun tipo di alcolico, soprattutto per motivi religiosi.
Quello che è interessante è notare in quale tipologia di consumatori stia avvenendo la crescita del mercato del vino: mentre le generazioni precedenti continuano ad apprezzare il vino in maniera tradizionale, le generazioni più giovani si avvicinano al vino da diverse direzioni. Se gli «anziani» negli Usa si accostano al vino soprattutto a cena e nel packaging più tradizionale, i giovani hanno un diverso approccio: acquistano una gamma più ampia di tipologie di vino ed etichette e spesso bevono questi vini più nei loro «tapa» party che a cena.
Molti osservatori dicono che c’è una nuova percezione da parte dei consumatori di vino nel mondo, soprattutto in Europa. Si starebbe manifestando una certa «stanchezza» nei confronti di un linguaggio del vino esasperatamente tecnico che sta allontanando anche numerosi appassionati. Qual è la sua opinione riguardo la comunicazione attuale del vino?
Io non direi che i consumatori abituali di vino abbiano cambiato la loro percezione nei confronti di questo straordinario prodotto. Direi, invece, che oggi vi sono nuovi consumatori nel mercato, che sono arrivati al vino con una diversa percezione, un diverso punto di vista. I «vecchi» consumatori spesso associano il vino al luogo nel quale viene prodotto; bevono il vino come espressione di un particolare territorio. Guardano al vino anche come un’espressione del produttore, del contatto tra il vitivinicoltore e il suo mondo.
Questi nuovi consumatori, invece, sembrano più interessati a come il vino si adatta al loro stile di vita, anziché preoccuparsi di come loro si debbano adattare allo stile del vino. Sono molto più interessati alla connessione tra etichetta e moda anziché a quella tra produttore e territorio. Per loro il vino deve essere soprattutto divertimento.
Una delle grandi «stranezze» dell’industria enologica è che molti produttori pensano che si dovrebbe demistificare il vino e dare un’immagine più semplice, di più facile approccio. Pensano che si dovrebbero realizzare vini più informali e freschi, ma nessuno di loro ritiene di dover fare tutto ciò per i propri prodotti.
La loro paura, ovviamente, è di perdere prestigio, che l’immagine dei loro vini sarebbe danneggiata associandola a prodotti così «informali». Non capiscono che il prestigio delle loro etichette è solo un segmento del mercato e si tratta di un elemento di anno in anno meno rilevante. Con l’ingresso delle nuove generazioni nel mercato, la battaglia sarà non come essere formali ma come avere maggior successo.
Regola generale del marketing è che tutte le società che hanno successo sono quelle che riescono a gestire la comunicazione nel mercato in termini di aspetti comprensibili e accettati dai consumatori. I produttori europei di vini classici hanno due strade: possono cambiare i loro vini adattandoli ai nuovi stili o possono iniziare a parlare di eleganza ed equilibrio.
Il mercato del vino è sempre più internazionale. Quali saranno nel futuro i più interessanti?
Ovviamente i mercati maggiormente più interessanti sono quelli di Cina e India. Sono i due Paesi con la popolazione più numerosa e sono ambedue nel pieno di una fase di crescita economica impressionante con nuove classi di consumatori, di buona capacità di spesa, interessati anche a prodotti come il vino. Ambedue i Paesi hanno una propria produzione vitivinicola che sta facendo passi in avanti. Questa è una buona cosa perché niente è più interessante di una popolazione che sta cercando di produrre del vino nel proprio cortile.
L’Australia, nonostante le difficoltà attuali, appare il Paese con il programma vitivinicolo più «aggressivo». Lei pensa che potrà realizzare i suoi obiettivi di diventare il maggior produttore entro il 2025? Qual è il punto di forza della loro industria enologica?
Dipende da cosa si intende per successo. Gli australiani hanno accresciuto la loro industria del vino in maniera enorme, con ottimi successi in numerosi mercati. Sono stati bravi nel loro approccio dei mercati con una visione sempre volta al business.
I problemi attuali del vino australiano, però, dimostrano che sono stati fatti degli errori nella programmazione e non sono quindi sicuro che i metodi che hanno utilizzato siano totalmente corretti e, soprattutto, che possano essere esportati in altre realtà produttive.
In Italia la maggioranza degli addetti ai lavori sottolinea come i produttori di vino italiani siano spesso deboli in marketing e comunicazione.
Non credo sia corretto descrivere così tutti i produttori di vino italiani. Vi sono stati sforzi straordinari in termini di marketing da parte di alcune imprese vitivinicole italiane come, ad esempio, Santa Margherita che con il suo Pinot Grigio ha «invaso» il mondo.
Peraltro va anche detto che è molto difficile gestire ottimali politiche di marketing e comunicazione a livello internazionale senza un livello produttivo adeguato che consenta investimenti all’altezza. Se tu produci solo 10.000 bottiglie di vino è praticamente impossibile competere a livello internazionale con altri brands. Devi essere il più possibile creativo con il budget che hai a disposizione e nel modo di impegnare il tuo tempo. Devi realizzare che stai competendo a livello globale, e devi giocare per vincere, non solo per partecipare.
Molti produttori italiani passano troppo tempo a parlare tra di loro e a vendere lo stesso vino agli stessi pochi consumatori. Parlano in continuazione delle caratteristiche dei suoli, dell’acidità dei vini, dell’esposizione dei vigneti e della vinificazione. Avrebbero invece bisogno di parlare della storia del loro vino, che è ciò che i consumatori vogliono sentire e ricordare.
Quello che i consumatori vogliono è il «romanzo», l’«avventura», il «divertimento». Non sono interessati alla fermentazione malolattica o a quanto tempo il vino viene affinato nelle barrique. Non si innamorano dei vostri vini perché avete un importante laboratorio di analisi. Molti produttori italiani hanno paura che si parli dei loro vini in termini di romanzo o divertimento, pensano che non sarebbero presi seriamente dal mercato.
Sempre in Italia si continua a discutere sull’importanza o meno delle nostre denominazioni di origine. Si sta riprendendo a parlare, a tal proposito, delle doc regionali. Qual è il suo punto di vista?
La maggioranza degli americani non ha idea di dove siano Asti o la Basilicata. Semplicemente non conoscono abbastanza l’Italia per poter capire il sistema delle doc. Non conoscono le regioni italiane e non conoscono il loro rapporto con la cultura, il cibo, il vino.
Penso sia molto difficile promuovere nomi che i consumatori americani non conoscono o non riconoscono a meno che non si racconti una storia, realizzi un senso di romanzo tra i consumatori. Ciò significa raccontare storie semplici, mantenere i vini facili da capire e contenere il messaggio in poche parole... Quello che è importante, quindi, non è raccontare se in una regione si coltiva Sangiovese o qualche altra varietà ma scrivere una storia, un libro romantico come: «Sotto il sole della Toscana». Se fossi a capo di qualche doc italiana contatterei un grande scrittore italiano per fargli scrivere un libro all’anno sulle maggiori regioni vitivinicole italiane.
Ritengo che molte delle vostre doc siano troppo piccole, troppo disorganizzate e non abbiano la capacità di diventare una sorta di società con un marchio collettivo da promuovere e commercializzare. Non possono realmente raccontare ai potenziali consumatori americani una storia che li possa affascinare.
Lei è considerato anche uno dei maggiori esperti internazionali del turismo del vino. In Italia continuiamo a pensare che possa essere una grande opportunità ma l’incremento dell’enoturismo del nostro Paese non è poi così esaltante. Ritiene che realmente il turismo del vino possa rappresentare una importante opportunità per il futuro?
Il turismo del vino non è qualcosa che si può creare nel giro di breve tempo. Necessita di una crescita organica dei territori del vino in risposta a specifici programmi di sviluppo per diverse tipologie di destinatari. Questo è possibile ma penso che la maggioranza dei produttori italiani ancora oggi non sappiano cosa desiderano i turisti del vino.
Si crede che questi siano interessati a conoscere meglio il mondo del vino e invece il loro primario interesse è passare piacevoli giornate all’aperto, in ambienti rurali con le loro famiglie o gli amici. Vogliono vivere un’esperienza, una sorta di «dolce vita» dei tempi andati.
Se si insiste nel cercare di educare l’ospite visitatore al consumo corretto del vino, si otterrà un insuccesso. Non vogliono corsi di degustazione o seminari sugli uvaggi, cercano qualcosa di interessante che loro stessi possono ripetere nelle loro cene con gli amici. Vogliono incontrare il proprietario o l’enologo soprattutto per conoscere delle persone con cui condividere momenti piacevoli, non tanto per descrizioni minuziose sui vini e sulla cantina. Vogliono portarsi a casa poche bottiglie o qualcos’altro che non possono trovare nel supermercato vicino a casa.
L’enoturismo, insomma, non dovrebbe essere solo la promozione di un’idea di visitare una regione e degustare dei vini: questo non è interessante per molti consumatori di una grande città che lo possono fare comodamente in ogni ristorante locale. Quello che i turisti del vino vogliono è una connessione personale con il mondo del vino.
Infine, quindi, il successo di questo settore dipende soprattutto dai produttori, dalle regioni, dalla loro capacità di creare un brand di successo. Costruire queste relazioni significa creare enoturismo.

 

Sommario rivista Fabio Piccoli


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