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L'agricoltura italiana non cammina |
Il calo del valore aggiunto agricolo segnalato dall’Istat, pur non
essendo troppo grave in sé, rappresenta un campanello di allarme per un
settore che ormai da alcuni anni non riesce più ad aumentare la ricchezza
prodotta
Istat, l’Istituto nazionale di statistica, ha diffuso il suo
consueto comunicato sui conti economici trimestrali del Paese. Da questo
bollettino l’agricoltura non ne esce bene, con una flessione del 6,1% del
valore aggiunto nel primo trimestre 2006, rispetto al quarto trimestre
dell’anno precedente.
Il valore aggiunto è un indicatore statistico che misura il contributo di
ogni impresa al prodotto totale. Possiamo anche definirlo come valore netto
di un’impresa. Si calcola detraendo dal valore delle vendite i beni,
acquistati da altre imprese, necessari alla produzione. La manodopera
impiegata in azienda è esclusa dalla detrazione.
Sulla base di questa sommaria definizione si può dire che il calo di valore
aggiunto, segnalato dall’Istat, indica un calo della ricchezza prodotta
dall’agricoltura italiana.
Il valore della produzione è calcolato moltiplicando le quantità prodotte
per i prezzi di mercato.
Il dato pubblicato non dice, però, se sono state le quantità prodotte a
diminuire o se sono calati i prezzi dei beni venduti oppure entrambi. In
questo caso specifico ci sentiamo di azzardare l’interpretazione che il dato
riflette il crollo quantitativo della produzione di carni avicole per la
nota paura indotta dall’influenza aviare.
In questa combinazione, si è manifestato anche quello che in genere non
succede di fronte a un calo dell’offerta, cioè un calo dei prezzi.
Non è comunque la diminuzione di valore aggiunto che deve preoccupare, in
quanto ha l’aspetto di un fatto doloroso, ma passeggero.
Se si esamina il dato del primo trimestre non più confrontato sul trimestre
precedente, che in agricoltura ha sempre significato relativo, ma sullo
stesso trimestre dell’anno precedente, la diminuzione è maggiormente
contenuta, sull’ordine del 3,5%.
Allora tutto bene? Assolutamente no, perché non è questo specifico dato che
preoccupa, ma piuttosto la stagnazione che da anni colpisce il valore
aggiunto agricolo a livello nazionale. In moneta costante, cioè depurato
dall’inflazione, esso non si muove da molto tempo: era al livello di circa
26,4 miliardi di euro nel 2001 e nei cinque anni successivi, cioè nel 2005,
è arrivato appena a 27 miliardi. La modesta crescita è dovuta al solo anno
positivo: il 2004.
Considerato che il balzo del 2004 è stato unico, e per molti versi ancora
statisticamente misterioso, ci troviamo in presenza di un calo reale,
costante da anni.
Certo il Paese nel suo complesso non è andato molto meglio, ma questa non è
una consolazione.
Si è sempre detto che l’agricoltura è anticiclica ma, ammesso che sia vero,
si vede chiaramente che ormai è legata all’economia di tutto il Paese.
I prezzi dei prodotti alimentari non trasformati, cioè quelli più vicini al
settore della produzione, sono diminuiti negli ultimi quattro anni, in
termini reali, raffreddando l’inflazione. Politici e sindacalisti agricoli
possono spendere questo dato come una benemerenza del settore agricolo, ma
il costo di questa opera buona è sicuramente un minore reddito per gli
agricoltori.
Questi ultimi dati che abbiamo citato fanno parte della relazione del
governatore della Banca d’Italia del 31 maggio scorso, nella quale per la
prima volta non si fa riferimento esplicito al settore agricolo. Forse, con
il 2,3% d’importanza dell’agricoltura sul pil, cioè sul valore della
ricchezza nazionale prodotta in un anno, il governatore Mario Draghi ha
pensato di non avere tempo da perdere.
Noi invece riteniamo che abbia volutamente rimandato l’esprimere giudizi su
un settore che ha un comportamento, sulla base delle idee del governatore,
non virtuoso.
Un settore con un’amministrazione pubblica al suo servizio, o al suo
comando, ipertrofica, con una molteplicità di rappresentanze sindacali
rissose e che palesemente vive di sussidi.
Nella relazione il governatore si richiama alla libera concorrenza, al
progresso tecnico e scientifico, alla scuola, cose certamente carenti in
agricoltura.
Draghi ha richiamato l’attenzione sulla produttività del lavoro, che in
agricoltura sembra aumentata.
È un dato difficile da leggere perché in agricoltura il lavoro è spesso
irregolare o atipico, e pertanto le statistiche sugli occupati meritano
indagini approfondite. In ogni modo, negli ultimi 10 anni i lavoratori
dipendenti sono diminuiti del 15% e gli indipendenti del 30%.
Questo, a parità della produzione, potrebbe essere interpretato come aumento
di produttività, ma anche come una fuga.
Vedremo nei prossimi anni.
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