|
|
Una ricerca più vicina alle imprese |
I piani e i programmi della ricerca pubblica appaiono troppo spesso
generici e lontani dalle esigenze delle imprese, che chiedono invece più
innovazione e maggiori opportunità concrete di migliorare i propri processi
e i propri prodotti.
Condivido l’opinione governativa che il ricercatore universitario non è
un mestiere usurante ai fini pensionistici, come invece pare siano il
barista e il barbiere.
Non convince, tuttavia, la motivazione addotta dai giornali, e cioè che
baristi e barbieri si stressano perché costretti ad ascoltare i clienti, che
ripetono sempre le stesse cose. Sentire sempre le stesse cose è
un’esperienza usurante, ma, ahimé, comune a molte professioni, compresa
quella del ricercatore. Anzi, è esattamente quello che accade da anni a
chiunque si occupi di ricerca, anche in campo agroalimentare.
Recentemente ho partecipato a diversi «comitati di indirizzo» che sono
quegli organismi nei quali un ente di ricerca o di alta formazione incontra
le imprese e il mondo produttivo. Inoltre seguo la road map che il Cra sta
svolgendo presso i «portatori di interessi» (Facoltà di agraria, istituti,
associazioni e simili) per definire il piano triennale della ricerca.
La conclusione che ne traggo è, appunto, che si ripetono sempre le stesse
cose: gli investimenti in ricerca sono scarsi, soprattutto sul fronte
privato; la ricerca pubblica è autoreferenziale, poco internazionalizzata e
inefficace nel diffondere e valorizzare i risultati; le piccole medie
imprese (pmi) italiane manifestano problemi di innovazione particolari, che
le logiche della ricerca pubblica non intercettano.
Una frequente rimostranza dei manager delle imprese (non solo pmi) suona
così: «Il mondo della ricerca ci contatta come partner privati, indicando
un’opportunità di finanziamento su un certo argomento, ma il progetto è
spesso preconfezionato e quasi mai aderente ai nostri veri problemi»; «in
molti casi, non si tratta tanto di risolvere un problema aziendale, quanto
di andare a caccia di fondi».
Insomma, le soluzioni appaiono lontane e, convenevoli a parte, il tasso di
insoddisfazione del mondo produttivo è percepibile più di quanto non emerga
dai verbali delle riunioni. Le cause di questa situazione sono complesse,
come le possibili azioni correttive. All’interno di questo quadro risaputo,
riporto due semplici riflessioni, emerse dagli incontri, che mi appaiono non
banali.
La prima è che i piani e i programmi della ricerca pubblica appaiono troppo
spesso generici ed esitanti.
Le imprese lamentano debolezze sia nella fase di ascolto, sia nella capacità
di decisione politica. Per migliorare la capacità di ascolto, occorre
superare il pregiudizio che la domanda di ricerca e di formazione è sempre
«latente» e che per esprimerla è sufficiente l’abilità deduttiva
«dall’alto». La raccolta delle esigenze introdotta dal Cra e dai comitati
d’indirizzo ai vari livelli sono testimonianze di buona volontà, ma non
sufficienti. L’approccio deve essere molto più sistematico, con
l’attivazione della fase di ascolto fin dai primi momenti di pianificazione
strategica.
In altre parole, non ha senso chiedere la ratifica di scelte già fatte, per
di più tese a non scontentare nessuno. Per migliorare la capacità di
decisione, occorrono semplicemente più coraggio politico e più coerenza.
Gli orientamenti della ricerca condizionano necessariamente il futuro del
settore e difficilmente si raggiungerà una meta se non sarà definita una
conforme direzione di marcia. Nel nostro Paese si temono troppo spesso le
scelte forti. Solo a titolo esemplificativo, se sul piano politico si
intendesse puntare veramente sulle biomasse energetiche, occorrerebbe
ragionare coerentemente di incentivi e di vincoli, non ultimi quelli
inerenti ai blocchi sugli ogm.
La seconda sollecitazione riguarda il potenziamento del trasferimento
tecnologico. Ciò che proviene dalle imprese non è tanto una domanda di
ricerca, quanto una domanda di innovazione, intesa come opportunità concreta
di migliorare i processi e i prodotti. Conseguentemente, ciò di cui
l’impresa sente prioritariamente la mancanza non è l’infrastruttura di
ricerca, ma il broker tecnologico, l’animatore che fa da tramite tra la
ricerca e l’impresa. Non è vero che in Italia non si fa nulla per la
divulgazione tecnica. Si contano decine tra centri di competenza, industrial
liason office e distretti tecnologici.
Il problema è che si tratta di iniziative molto frammentate, poco
specializzate e più orientate a erigere laboratori che a disseminare il
territorio di esperti che parlano il linguaggio delle imprese. Insomma, la
fantasia non manca, ma l’efficacia è tutta da valutare. Forse il futuro del
sistema agroalimentare è nelle mani dei broker tecnologici. A giudicare
dalla difficoltà del compito, c’è da giurare che si rivelerà, quello sì, un
mestiere parecchio usurante.
|