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Agricoltori protagonisti del proprio futuro |
La ricerca del consenso politico è una condizione necessaria, ma non
sufficiente. Bisogna anche saper avanzare proposte in grado di creare valore
e di distribuirlo tra le componenti del sistema in modo equo, puntando con
più decisione all’innovazione e alla conquista di nuovi mercati.
Bloccato in auto nel centro di Bologna dalle migliaia di berretti gialli
della Coldiretti, ho provato un sincero senso di simpatia e di solidarietà
nel vedere tanti volti familiari di persone schiette, orgogliose della loro
identità e decise a far valere le proprie ragioni.
La ricerca per acquisire peso e consenso in partiti che sappiano
interpretare non solo gli interessi di categoria, ma anche condividere i
valori morali e culturali del mondo agricolo è il fondamento indispensabile
di una qualsiasi politica di settore.
La grande manifestazione di Bologna dell’11 luglio scorso non può non far
pensare a un passato non molto lontano, in cui la Coldiretti esercitò un
peso politico utile non solo a rappresentare e difendere gli interessi
agricoli, ma anche a orientare la vita del Paese su alcuni valori etici
fondamentali, quali famiglia, religione, lavoro e democrazia.
La soddisfazione nell’assistere a tanto entusiasmo è però molto offuscata
nel vedere perdurare la divisione nelle rappresentanze agricole. E il
constatare che le ragioni non stanno tutte da una parte non attenua, anzi
acuisce, l’amarezza di tutti quelli che hanno a cuore l’agricoltura.
Il motivo di contrasto all’interno delle categorie agricole spesso si
focalizza sul disaccoppiamento degli aiuti: se esso debba essere parziale o
integrale, differenziato per aree e per prodotti, immediato o graduale,
quali categorie debbano beneficiare degli aiuti.
Si tratta di problemi rilevanti, che comportano ricadute economiche
importanti sulle diverse categorie agricole, ma che non debbono sviare
l’attenzione dal problema strategico, che l’agricoltura italiana deve
affrontare nel medio periodo, vale a dire la ricerca della competitività in
regime di disaccoppiamento.
A mio giudizio la Coldiretti manifesta un’eccessiva fiducia nella capacità
di difendere i redditi agricoli mediante una filiera corta che colleghi
produttore e consumatore, nella possibilità di vincere la concorrenza
puntando sulla tipicità dei prodotti con certificazione d’origine, sull’uso
di tecniche di produzione biologiche, o cavalcando un radicale e ideologico
ostracismo nei confronti degli ogm.
Sono proposte che certamente presentano aspetti positivi e interessanti ma
che, anche con il sostegno pubblico, non saranno mai in grado di assicurare
la competitività del settore se non integrate e rese coerenti con lo
sviluppo di filiere agroalimentari efficienti.
D’altra parte, il mondo della cooperazione è in gran parte responsabile
della gestione delle organizzazioni di commercializzazione e trasformazione
dei prodotti agricoli, organizzazioni che oggi manifestano evidenti
difficoltà nell’affrontare la complessità della globalizzazione dei mercati
e sembrano cercare la competitività prevalentemente nella riduzione del
costo della materia prima di origine agricola, piuttosto che nello
sfruttamento delle opportunità create dall’innovazione tecnologica e
dall’allargamento dei mercati.
Forse incide ancora troppo il peso di un passato in cui ci si è concentrati
prevalentemente sui meccanismi di distribuzione dei profitti piuttosto che
su quelli della loro formazione; forse, in periodi di vacche se non proprio
grasse almeno per taluni non tanto magre, si è appesantita la filiera di
strutture burocratiche eccessivamente costose.
L’obiettivo che oggi gli agricoltori si devono porre è quello di divenire i
soggetti attivi di una catena in grado di creare valore e di distribuirlo
tra tutti coloro che hanno concorso alla sua creazione in base all’impegno
profuso e al rischio sopportato. E oggi il valore si crea mediante
l’innovazione e la conquista di nuovi mercati.
È questa una via allo sviluppo impegnativa e non facile, che richiede alle
categorie agricole unità di intenti e non artificiose e dannose
contrapposizioni.
Un Paese può sopravvivere anche senza agricoltura, o quanto meno con
un’agricoltura ridotta ai minimi termini.
È certamente uno degli scenari possibili, che comporterebbe uno sperpero di
risorse naturali, morali e culturali accumulate da intere generazioni,
difficilmente comprensibile e giustificabile in questo momento di grande
cambiamento e incertezza per l’Italia e l’Europa.
Se si vuole assicurare un futuro all’agricoltura può essere pericoloso
affidarsi a miracolistiche soluzioni, che hanno la suggestione degli slogan
propagandistici, buoni per vivacizzare una campagna elettorale, ma incapaci
di incidere in misura significativa sulla realtà tecnica, economica e
sociale della nostra agricoltura.
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