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Consulenza aziendale sì, ma non per tutti |
Lo strumento può essere utile, a patto però di evitare gli interventi
a pioggia e selezionare con coraggio le aziende vitali da quelle inerti, per
centrare gli obiettivi fondamentali del trasferimento tecnologico e
dell’innovazione gestionale.
La consulenza aziendale è uno strumento utile per gli agricoltori o
l’ennesima fregatura?
Il tema è stato sollevato da un articolo incisivo apparso su L’Informatore
Agrario n. 9/2007 a pag. 10. La tesi di fondo, in sintesi, era che la
consulenza, sulla quale Ue e Regioni hanno fatto una forte scommessa
nell’ambito dei Psr, rischia di rivelarsi un servizio di dubbia utilità, che
potrebbe trasformarsi nel solito espediente per spillare quattrini agli
agricoltori.
Così formulata, può apparire un’opinione eccessivamente pessimista.
Purtroppo, il pessimismo non è ingiustificato, soprattutto alla luce delle
numerose esperienze, non tutte brillanti, accumulate nel tempo dai servizi
di sviluppo del nostro Paese. Anche in questo caso, come in tanti altri, il
problema non è sapere se uno strumento sia buono o cattivo in sé, ma
scoprire quale sia il modo migliore di impiegarlo per centrare gli obiettivi
e per soddisfare le legittime esigenze delle parti interessate.
Gli obiettivi della consulenza sono indicati nei regolamenti comunitari
1782/2003 e 1698/2005. Il primo indica l’applicazione dei vincoli ambientali
come ambito minimo della condizionalità. Il secondo colloca il servizio
nell’asse della competitività e lo finalizza al miglioramento del rendimento
globale dell’azienda agricola. Emergono due possibili modelli di consulenza:
un «servizio di minimo», con il mero compito di informare gli agricoltori
sugli adempimenti ambientali e sulle modalità di documentarne
l’ottemperanza, ovvero un «servizio completo» di assistenza gestionale e di
trasferimento tecnologico, teso ad aiutare l’azienda a stare sul mercato,
aumentando le vendite o riducendo i costi di produzione.
Quanto alle esigenze da soddisfare, recenti indagini hanno messo in evidenza
che sono di vario tipo, a seconda della categoria considerata: agricoltori,
consumatori e contribuenti. La necessità di attivare servizi per la
condizionalità non è molto sentita dagli agricoltori, che tendono a
interpretarla come un obbligo, anziché un’assicurazione contro i rischi di
sanzione. Ovviamente, l’atteggiamento è diverso per i consumatori, i quali
invece sono interessati alla tutela dell’ambiente e alla qualità dei
processi agricoli. Al contrario, il bisogno di disporre di servizi per lo
sviluppo dell’impresa è largamente avvertito nel mondo agricolo, che
vorrebbe una guida per la programmazione delle specie da coltivare e da
piazzare sul mercato, oltre che delle tecniche da adottare.
A queste esigenze si sommano quelle dell’amministrazione pubblica, che deve
tradurre in pratica gli obiettivi con efficacia ed efficienza, rispondendo
alla crescente richiesta da parte del contribuente di qualità della spesa.
Qui si fanno sentire i problemi, in quanto i servizi di cui parliamo hanno
un contenuto altamente immateriale, che rende complicati i controlli e
facilita i comportamenti opportunistici. Qui trovano giustificazione anche i
pessimismi prima accennati.
La risposta tecnica a questi timori è contenuta nell’adeguatezza della
procedura con cui sarà regolato il servizio. Si sta mettendo a punto un
serio percorso tecnico, che impone al servizio una documentata procedura
(«verifica d’ingresso» e «protocollo di consulenza») che dovrebbe agevolare
uno svolgimento corretto e assicurare una gestione efficace e di qualità.
Tuttavia, la risposta tecnica non regge se non è sostenuta preliminarmente
da una chiara risposta politica. Non è possibile pensare che una misura come
la consulenza possa evitare la condanna all’irrilevanza o al fallimento se
non poggerà su una chiara volontà di perseguire gli obiettivi del
trasferimento tecnologico e dell’innovazione gestionale con coerenza.
Pertanto, oltre a vagliare i fornitori del servizio, occorre evitare gli
interventi a pioggia, selezionare coraggiosamente le aziende vitali,
scartare quelle inerti e puntare più su meccanismi di diffusione per
imitazione che non su un ecumenismo di scarso impatto.
Siamo di fronte all’avanzare della «modernità liquida», che i bei libri di
Zygmunt Bauman stanno rivelando, fatta di cittadini, consumatori e attori
socio-economici iperflessibili, iperglobali e iperprecari, in una parola
sola, «liquidi». Se non vogliamo rassegnarci all’idea che l’agricoltura si
adegui supinamente a questa inquietante tendenza, occorre non perdere
nemmeno un’occasione per contrastarla, aumentandone la solidità.
Nel loro piccolo, anche le singole politiche di sviluppo possono dare un
contributo, affrontando questa realtà in movimento con le armi di un deciso,
quanto auspicabile, rinnovamento gestionale e tecnico.
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