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Agroenergie, non è tutto oro quello che luccica |
Investimenti consistenti in campo agroenergetico dovrebbero essere
effettuati solo dopo una sperimentazione che consideri anche il bilancio
energetico e un’analisi economica che scorpori le ingenti provvidenze
pubbliche attuali.
Cresce l’interesse da parte del mondo agricolo verso la coltivazione di
biomasse al fine di ricavare energia.
Trattandosi di utilizzazione di risorse rinnovabili in un settore in cui
ogni giorno vi sono allarmi relativi al probabile rapido esaurimento delle
fonti fossili e ai gravi fenomeni che l’inquinamento causato dalle stesse
provoca, può sembrare che tutto sia semplice.
La contemporanea difficoltà che incontrano alcune colture e/o alcune
destinazioni finali dei prodotti tradizionali, in conseguenza sia dei
mutamenti nella politica agricola comunitaria sia dell’andamento dei mercati
globali, non fanno che accentuare l’interesse per un settore che alcuni
ritengono possa costituire una ragionevole opportunità per numerose aziende
agricole.
Le informazioni relative ai costi e ai ricavi, peraltro frequentemente non
complete e basate su rese e prezzi che, in diversi casi, appaiono
ottimistici, sembrano confermare tale orientamento.
Finalmente un settore che presenta una domanda in crescita e per il quale il
futuro non sembra dipendere dalle scelte della politica agricola
comunitaria, si è portati a pensare. Avanti c’è spazio, quindi. Sarà
veramente così?
Pur non sottovalutando gli aspetti positivi di tali colture, si ritiene
opportuno invitare a valutare con cautela l’eventualità di investimenti
consistenti in questa direzione.
Tale cautela è suggerita da un’osservazione banale, ma che viene
frequentemente trascurata. Infatti, se queste colture sono destinate alla
produzione di energia risulta importante valutarne, in primo luogo, la resa
energetica, vale a dire il rapporto tra l’energia necessaria per portare a
termine il ciclo produttivo e quella che si può ricavare dai prodotti
ottenuti.
Non vi sono, in proposito, molte ricerche relative all’ambiente italiano.
Tuttavia l’analisi dei risultati disponibili porta a ritenere che, in
diversi casi, il quantitativo di energia ricavabile dalle coltivazioni sia
di poco superiore a quello necessario per portare a termine le stesse. In
alcuni casi si avrebbero addirittura, sotto il profilo del bilancio
energetico, risultati negativi. Solo nei casi di trasformazione di
sottoprodotti o di poche colture ad altissima produttività si avrebbe una
resa energetica interessante.
Sarei contento se questa mia valutazione potesse essere confutata con dati
attendibili e generalizzabili.
In caso contrario, va da sé che lo spazio per colture a orientamento
energetico non sarebbe molto ampio. Ci si può chiedere, allora, perché molti
invitino a seguire tale strada. Le motivazioni, a mio giudizio, sono almeno
tre.
La prima è relativa alla circostanza che, per alcuni tipi di utilizzo,
l’energia ricavabile dalle biomasse, come ad esempio l’etanolo, sembra
inquinare molto meno che non la benzina o il gasolio. Tale circostanza può
risultare importante soprattutto nel caso dei mezzi di trasporto in ambiente
urbano.
La seconda ragione sta nell’esistenza di consistenti interventi pubblici a
favore dell’energia da fonti rinnovabili e, quindi, anche da biomassa. Basti
pensare in proposito ai certificati verdi o alla non tassazione dei
carburanti di provenienza vegetale. Gli interventi si giustificano con la
necessità di favorire la diffusione delle nuove fonti energetiche. Tuttavia,
mentre per altre fonti, come il fotovoltaico, vi è la speranza che, in tempi
ragionevoli, si rendano disponibili nuove tecniche atte a ridurre
drasticamente i costi di produzione, nel caso della produzione di biomassa
tale speranza è molto più flebile. Pertanto la competitività di queste
produzioni è probabile resti legata alla presenza di generosi incentivi che
si ritiene, peraltro, destinati a una rapida riduzione.
La terza ragione sta nell’interesse di poche grandissime aziende che
dispongono di migliaia di ettari di terreno a orientarsi verso colture che
garantiscano un reddito certo, anche se attestantesi su valori/ettaro
ridotti.
Per tali aziende le colture energetiche possono sostituire altre produzioni
di massa per le quali l’intervento comunitario si è fortemente ridotto.
Meglio lasciare perdere tutto, quindi?
Sicuramente no. Tuttavia prima di effettuare investimenti consistenti è
necessaria una seria sperimentazione nei diversi ambienti e per le diverse
colture. Una sperimentazione che non si limiti a valutare gli aspetti
agronomici e produttivi, ma consideri anche il bilancio energetico e, perché
no, metta a disposizione alcune valutazioni economiche, scorporando gli
effetti delle provvidenze pubbliche dai costi e ricavi dipendenti dal
mercato.
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