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Basta sprechi con l’art. 69 |
Fino a oggi l’Italia ha applicato così male lo strumento dei pagamenti
supplementari da renderlo inefficace. Servono interventi più selettivi e
lungimiranti che promuovano concreti miglioramenti nelle filiere prescelte.
La riforma della pac del 2003, tra i diversi elementi innovativi
introdotti, ha incluso anche la possibilità di destinare fino al 10% del
massimale nazionale corrispondente a ciascuna misura prevista per i diversi
comparti, per effettuare un pagamento supplementare agli agricoltori che si
impegnano in tipi specifici di agricoltura ritenuti importanti per tutelare
o valorizzare l’ambiente o per migliorare la qualità e la
commercializzazione dei prodotti.
Queste misure, contenute nell’articolo 69 del regolamento Ce n. 1782/2003,
sono quindi uno strumento potenzialmente significativo anche per qualificare
meglio la spesa del «primo pilastro», in un’ottica di politica agraria
pro-attiva e non solo redistributiva.
Il nostro Paese, come noto, ha deciso di applicare queste misure e fin
dall’avvio dell’applicazione della riforma, nel 2005, ha fissato le quote di
risorse: il 7% per i bovini, il 5% per gli ovicaprini, l’8% per i seminativi
e uguale misura percentuale per lo zucchero.
Tutto ciò poteva far pensare, legittimamente, che il nostro Paese volesse
finalmente utilizzare queste nuove possibilità con flessibilità, ma
soprattutto con la determinazione necessaria per uscire da una mera
redistribuzione degli aiuti, compensativa rispetto a una data situazione del
passato. Ma la realtà dei fatti ha mostrato il contrario.
Fino allo scorso anno, infatti, l’Italia ha applicato così male tale
provvedimento da renderlo non solo inefficace, ma praticamente uno spreco di
risorse.
Per le carni bovine, ad esempio, i quasi 29 milioni di euro disponibili sono
stati distribuiti talmente ad ampio spettro da far scendere il premio
unitario a livelli trascurabili e quindi ininfluenti sui comportamenti
aziendali; nel 2005 l’importo liquidato è stato pari a 22,80 euro/capo. In
questo caso, se si considerassero i costi amministrativi complessivi,
pubblici e privati, forse i benefici di questa misura sarebbero molto
prossimi a zero, se non addirittura negativi. Per gli ovicaprini,
similmente, il criterio di un numero di animali superiore a 50 e di un
numero minimo di 120 giornate di pascolo ha portato ad avere un aiuto pari a
circa 1,3 euro/capo sia nel 2005 che nel 2006. Un valore risibile.
Ma qual è la causa? Il meccanismo decisionale italiano per le politiche
agricole, infatti, se da un lato è molto opportunamente decentrato a livello
regionale, dall’altro, per queste stesse ragioni, rischia talvolta di
dimostrarsi incapace di assumere decisioni sufficientemente lungimiranti.
Infatti, di fronte a proposte di applicazione necessariamente più selettive
ma per questo anche assai più efficaci, le Regioni tendono a fare una
semplicistica quanto distorsiva valutazione basata sui «conti della serva»:
la regione «x» o «y» guadagna o perde, immaginando di applicare il
provvedimento «nella situazione attuale»?
Ecco la trappola: tutte le valutazioni sono di tipo meramente finanziario e
soprattutto sono statiche, si basano, cioè, su una situazione priva di
possibilità di cambiamento. Ma il cambiamento è proprio quanto questo
strumento vuole favorire e quanto esso potrebbe e dovrebbe promuovere!
Così, valutare le misure in base alla ricadute finanziarie sui produttori
regionali «immaginati» in questa condizione statica è doppiamente sbagliato.
Anzitutto essi sono sempre pronti a cogliere le opportunità offerte dai
cambiamenti delle misure e delle politiche; secondariamente, i vantaggi per
il sistema produttivo, anche solo su base regionale, devono essere valutati
in base agli effetti economici sull’intera filiera.
Ad esempio, già da tempo gli allevatori di bovini da carne, anche quelli più
grandi, segnalano con forza la difficoltà di reperimento di vitelli da
ristallo, non solo sul mercato nazionale, ma anche su quello europeo. Per
questa ragione essi sarebbero ben lieti di rinunciare a un aiuto a capo di
entità trascurabile sui propri capi allevati, specialmente se tutte le
risorse dell’articolo 69 andassero a promuovere la produzione di vitelli da
ristallo mediante un intervento mirato ed efficace (si avrebbe un aiuto
decisamente più elevato) sulla linea vacca-vitello di razze pregiate da
carne. È quanto servirebbe in questo caso alla competitività della filiera,
a promuovere produzioni di più alta qualità e a valorizzare anche le aree
interne (collina e montagna) con attività produttive che in quel contesto
sarebbero ancora possibili e interessanti. Anche sull’ovicaprino ci sono
analoghi spazi di miglioramento: basterebbe favorire i capi iscritti a Libri
genealogici. Le Regioni (e in qualche misura il Ministero) non possono più
perdere questa occasione a causa di calcoli chiaramente miopi e sbagliati.
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