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L'Informatore Agrario
Sommario rivista Approfondimento
 
17
 21-27 Apr.

  2006
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Attualità POLITICA

La ricerca motore dell’agricoltura

Promemoria al ministro che verrà - Intervista a Francesco Salamini

Nel nostro Paese la ricerca è considerata una cosa quasi inutile, mentre è fondamentale per reggere la concorrenza degli altri Paesi. Il caso degli Irsa è emblematico: tanta burocrazia e poche promesse mantenute

La nomina del nuovo Governo minaccia di essere una faccenda lunga. In attesa dell’arrivo del ministro dell’agricoltura, L’Informatore Agrario vorrebbe dare il suo contributo discutendo con alcuni esperti i possibili contenuti di un mansionario del buon governo: questo raccogliendo notizie dal basso e cioè dalla parte di chi attende gli interventi governativi.
Il primo interlocutore è il professor Francesco Salamini: una vita dedicata alla ricerca agraria, attualmente docente di tecnologie genetiche alla Facoltà di agraria dell’Università statale di Milano e direttore scientifico del Parco tecnologico padano di Lodi.
L’argomento è la ricerca agraria svolta dagli Istituti del Cra, del Cnr, dalle Facoltà di agraria e veterinaria e dalle Regioni.
Cominciamo da un po’ più lontano, esplorando anche il contesto economico e sociale che genera la domanda di ricerca per l’agricoltura.
Faccio una premessa, piuttosto critica verso la recente evoluzione dei Ministeri dell’agricoltura di alcuni Stati europei. In Germania questo Ministero si rifà ormai quasi solo alla protezione del consumatore e tale tendenza ha preso piede anche in Italia con gli ultimi due ministri dell’agricoltura.
è vero che nelle società industriali avanzate le dinamiche dei comprensori agricoli sono ormai integrate nelle politiche globali rivolte al raggiungimento di un equilibrio tra intensificazione agricola, esigenze ecologiche e accesso del consumatore a prodotti sani e nutrienti. Altrettanto noto è che la frazione di addetti all’agricoltura va costantemente diminuendo e che, quindi, si stempera l’attenzione politica verso questa categoria.
Questi atteggiamenti, tuttavia, non possono e non devono declassare l’agricoltura ad attività quasi solo tollerata (un esempio è lo scempio – consumato nel silenzio dei partiti, dei media e degli Assessorati regionali – delle terre agricole padane il cui cambiamento di destinazione sta distruggendo il biotopo agricolo più produttivo del mondo).
Non devono nemmeno far cadere del tutto gli interventi di settore, e la ricerca agraria è uno di questi, e far ulteriormente scivolare l’attenzione rivolta a favore dei progetti di ricerca verso gli interessi – legittimi – dei consumatori, dimenticando che anche il produttore necessita di un costante rinnovamento dei mezzi tecnici disponibili (un esempio è quello del maiscoltore: prezzi in caduta, innovazione bloccata).
Nella pratica dell’azione ministeriale, questa sua osservazione in cosa si traduce?
Semplice: il Ministero dell’agricoltura deve tornare a essere anche il Ministero degli agricoltori e quindi il rappresentante dei loro interessi. E questo non solo quando la crisi di un comparto obbliga il ministro a intervenire con misure che, spesso e per necessità, non tengono conto di pianificazioni di lungo periodo.
Ma relativamente alla ricerca agraria?
Quello che segue è solo un elenco di problemi aperti: riforma del Cra; struttura e gestione della richiesta di ricerca; ricerca agraria e Tavolo Stato-Regioni; progetti internazionali di ricerca agraria avanzata; sostegno allo sviluppo di cluster nazionali di eccellenza; coordinamento tra ricerca dell’Università, del Cnr, del Cra e delle Regioni; stimolo alla crescita nazionale di una industria dei mezzi tecnici agricoli.
Di certo non abbiamo spazio per discutere di tutte queste possibili azioni del ministro. Cominciamo comunque dal Cra.
Non nascondo di essere deluso. La riforma degli Istituti Irsa ha avuto una lunghissima gestazione ma le tante speranze di rinnovamento non sono state mantenute: niente centri di eccellenza; nessuna scuola internazionale di dottorato progettata; no a un sistema di post dottorandi; disattenzione totale all’internazionalizzazione e al reclutamento all’estero; risorse finanziarie incerte; ritardi nell’organizzazione e gestione del personale.
Cosa potrebbe fare il nuovo ministro? Innanzitutto porre all’Ente scadenze molto precise, anche temporali, soprattutto se vorrà modificare il consiglio di amministrazione del Cra. Gianni Alemanno lo rinnovò e l’intera Legislatura è trascorsa senza che si sia conseguito uno stato di funzionamento definitivo. Il nuovo ministro, se vorrà cambiare, deve chiedere che entro un anno i Dipartimenti funzionino, che le nomine dei direttori a tutti i livelli siano completate, che il consiglio di amministrazione presenti un progetto preciso in tempi, modi e necessità di risorse rivolto al rinnovamento delle strutture, oggi inadeguate anche se confrontate con quelle di Paesi emergenti.
Solleciti inoltre la messa in atto:
- di un sistema di controllo del funzionamento dei Centri di ricerca che vada oltre a quello delineato negli statuti e regolamenti;
- dell’uscita da un sistema poco chiaro e insufficiente di assegnazione di fondi alle strutture;
- di una procedura di assunzione di dottorandi e post dottorandi su progetto, iniziativa che diminuisca radicalmente l’età media degli addetti (oggi tra i 50 e i 60 anni);
- della riadozione di modalità di assegnazione dei fondi su progetto con valutazioni da parte di commissioni scientifiche con chiamate nazionali.
è essenziale che il ministro ponga la direzione e il consiglio di amministrazione dell’Ente sotto pressione, a costo di richiedere sedute consigliari permanenti. L’Ente rischia, infatti, di scomparire per messa in pensione degli addetti prima che, con i tempi attuali, se ne completi il funzionamento. Dia vita, inoltre, a comitati scientifici elettivi che stimolino la partecipazione dei ricercatori alla gestione dell’Ente.
E sulla necessità di internazionalizzazione?
C’è prima una necessità nazionale: come coordinare la ricerca del Cra, del Cnr, dell’Università e delle Regioni. Negli ultimi 50 anni questa funzione è stata, nei fatti, delegata al Mipaf, ma il Ministero ha rinunciato negli ultimi anni a questo ruolo.
Qualcosa di buono fa il Miur, il Ministero per la ricerca: recentemente ha raccolto la richiesta nazionale di partecipare con fondi suoi ai progetti europei sui genomi delle piante agrarie. Servirebbe comunque un forte coinvolgimento del Tavolo Stato-Regioni, anche nel disegno delle politiche di ricerca del settore agricolo: definite, queste, nelle loro valenze regionali. Al Mipaf potrebbe essere lasciata la componente strategica rivolta al futuro, e cioè: il coordinamento tra istituzioni ed enti; i piani di sviluppo delle strutture di eccellenza e delle piattaforme tecnologiche; la partecipazione ai progetti internazionali, per esempio di genomica e di quanto ne consegue e infine l’organizzazione della domanda di ricerca agraria.
Lei ha fatto un accenno al rilancio dell’industria nazionale dei mezzi tecnici agricoli. Perché e come?
Dopo la scomparsa della Federconsorzi il Paese non ha più avuto una possibilità di essere presente in modo significativo in questo importante settore, con una organizzazione di respiro almeno nazionale. è chiaro, comunque, e a tutti, che l’innovazione per l’agricoltura è stata, negli ultimi 30 anni, in larga parte di provenienza internazionale: mi riferisco a fitofarmaci, molecole per la veterinaria e la zootecnica, semi e materiale genetico di polli, suini, bovini, materiale vegetale micropropagato, starter microbici per le trasformazioni dei prodotti agrari e microbi comunque utili, componenti elettroniche della meccanica agraria, e altro ancora.
Al di là della facile e superficiale polemica del ministro, la presenza delle multinazionali nel settore agricolo in Italia è stata ed è positiva. Ci si domanda, tuttavia, perché il Paese non dovrebbe partecipare a questo mercato con un’industria nazionale molto più significativa, capace di competere almeno nel mercato europeo se gli interventi in ricerca agraria – particolarmente costosi – devono essere coperti dall’accesso a un mercato sufficientemente ampio. La risposta è certamente positiva... ma dipende dalle attività di cluster di ricerca pubblico-privati dove sono presenti e attivi ricercatori di punta, piattaforme tecnologiche avanzate, incubatori d’impresa, servizi per la crescita e il sostegno di piccole industrie ad alta tecnologia, interesse all’investimento di capitali e quant’altro è propedeutico allo sviluppo di distretti industriali avanzati.
Ritorniamo, anche in questo ambito, a richiamare e mettere a fuoco il ruolo degli interventi già sollecitati nelle risposte precedenti: riorganizzare i Centri del Cra e delle altre istituzioni pubbliche dedicate alla ricerca agraria; adottare strumenti per il trasferimento tecnologico; nutrire una forte convinzione che il settore pubblico ristrutturato e dotato di uomini e risorse adeguati è in condizione di generare imprese, senza avere timori o addirittura pretese di non «contaminarsi» nell’assistere l’industria privata. Per quanto paradossale questa richiesta possa sembrare, fare impresa a partire da politiche di pianificazione pubbliche ha forti implicazioni sociali: basta ricordare che il Paese esporta al momento cervelli e importa operai a basso livello, e che la creazione di posti di lavoro per laureati e scienziati è quanto di più serio si possa offrire alle giovani generazioni.
Professore, ma quanto è realistico credere che chi ha responsabilità a tutti i livelli nel sistema ricerca agraria possa seguire i suoi consigli per rendere le sue proposte praticabili?
è una domanda corretta, alla quale posso rispondere citando una recente esperienza. Nella posizione di presidente di una commissione Civr (Comitato di indirizzo per la valutazione della ricerca) di valutazione della ricerca condotta negli ultimi anni dalle Università di agraria e veterinaria e da altri enti nazionali pubblici, ho partecipato a un incontro tenutosi presso la Conferenza dei rettori degli atenei italiani, incontro a cui erano stati invitati i rappresentanti degli enti valutati.
La relazione finale della mia Commissione conteneva le graduatorie di merito delle diverse sedi universitarie e degli altri enti, nonché conclusioni sul loro stato di salute in termini di ricerca svolta e di gruppi disciplinari più attivi.
Non è stato un incontro facile, considerato che era la prima volta che il Paese metteva in atto iniziative di controllo della produttività scientifica e che la metodica utilizzata non era tale da poter render conto, sulla base degli 850 prodotti valutati (pubblicazioni e brevetti), della oggettività della valutazione, specialmente della posizione relativa delle scienze considerate nei confronti di altre discipline, biologiche, fisiche e chimiche, per esempio.
I rappresentanti degli enti a confronto presenti all’incontro sono stati, comunque molto vivaci, puntigliosi nel chiedere spiegazioni a tutti i livelli, addirittura in qualche caso polemici e critici se non risentiti. Alla fine della riunione mi sono ritrovato sorpreso in senso positivo: i presenti avevano uno spiccato senso di identificazione con le loro strutture; soprattutto erano stati aperti al confronto che volevano e che alimentavano con la discussione.
Ho ricordato l’episodio per sottolineare che la risposta alla sua domanda è positiva per quanto riguarda la componente professionale dei sistemi di ricerca agraria nazionale. Altrove si devono invece collocare le responsabilità che hanno priorità più elevate: per l’internazionalizzazione, le risorse, il reclutamento del personale, il rinnovamento delle strutture, la creazione dei cluster di ricerca, il trasferimento tecnologico.
Dove? Provi, su questi temi, a coinvolgere il nuovo ministro!

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