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La ricerca motore dell’agricoltura |
Promemoria al ministro che verrà - Intervista a Francesco Salamini
Nel nostro Paese la ricerca è considerata una cosa quasi inutile,
mentre è fondamentale per reggere la concorrenza degli altri Paesi. Il caso
degli Irsa è emblematico: tanta burocrazia e poche promesse mantenute
La nomina del nuovo Governo minaccia di essere una faccenda lunga. In attesa
dell’arrivo del ministro dell’agricoltura, L’Informatore Agrario
vorrebbe dare il suo contributo discutendo con alcuni esperti i possibili
contenuti di un mansionario del buon governo: questo raccogliendo notizie
dal basso e cioè dalla parte di chi attende gli interventi governativi.
Il primo interlocutore è il professor Francesco Salamini: una vita dedicata
alla ricerca agraria, attualmente docente di tecnologie genetiche alla
Facoltà di agraria dell’Università statale di Milano e direttore scientifico
del Parco tecnologico padano di Lodi.
L’argomento è la ricerca agraria svolta dagli Istituti del Cra, del Cnr,
dalle Facoltà di agraria e veterinaria e dalle Regioni.
Cominciamo da un po’ più lontano, esplorando anche il contesto
economico e sociale che genera la domanda di ricerca per l’agricoltura.
Faccio una premessa, piuttosto critica verso la recente evoluzione dei
Ministeri dell’agricoltura di alcuni Stati europei. In Germania questo
Ministero si rifà ormai quasi solo alla protezione del consumatore e tale
tendenza ha preso piede anche in Italia con gli ultimi due ministri
dell’agricoltura.
è vero che nelle società industriali avanzate le dinamiche dei comprensori
agricoli sono ormai integrate nelle politiche globali rivolte al
raggiungimento di un equilibrio tra intensificazione agricola, esigenze
ecologiche e accesso del consumatore a prodotti sani e nutrienti.
Altrettanto noto è che la frazione di addetti all’agricoltura va
costantemente diminuendo e che, quindi, si stempera l’attenzione politica
verso questa categoria.
Questi atteggiamenti, tuttavia, non possono e non devono declassare
l’agricoltura ad attività quasi solo tollerata (un esempio è lo scempio –
consumato nel silenzio dei partiti, dei media e degli Assessorati regionali
– delle terre agricole padane il cui cambiamento di destinazione sta
distruggendo il biotopo agricolo più produttivo del mondo).
Non devono nemmeno far cadere del tutto gli interventi di settore, e la
ricerca agraria è uno di questi, e far ulteriormente scivolare l’attenzione
rivolta a favore dei progetti di ricerca verso gli interessi – legittimi –
dei consumatori, dimenticando che anche il produttore necessita di un
costante rinnovamento dei mezzi tecnici disponibili (un esempio è quello del
maiscoltore: prezzi in caduta, innovazione bloccata).
Nella pratica dell’azione ministeriale, questa sua osservazione in
cosa si traduce?
Semplice: il Ministero dell’agricoltura deve tornare a essere anche il
Ministero degli agricoltori e quindi il rappresentante dei loro interessi. E
questo non solo quando la crisi di un comparto obbliga il ministro a
intervenire con misure che, spesso e per necessità, non tengono conto di
pianificazioni di lungo periodo.
Ma relativamente alla ricerca agraria?
Quello che segue è solo un elenco di problemi aperti: riforma del Cra;
struttura e gestione della richiesta di ricerca; ricerca agraria e Tavolo
Stato-Regioni; progetti internazionali di ricerca agraria avanzata; sostegno
allo sviluppo di cluster nazionali di eccellenza; coordinamento tra ricerca
dell’Università, del Cnr, del Cra e delle Regioni; stimolo alla crescita
nazionale di una industria dei mezzi tecnici agricoli.
Di certo non abbiamo spazio per discutere di tutte queste possibili
azioni del ministro. Cominciamo comunque dal Cra.
Non nascondo di essere deluso. La riforma degli Istituti Irsa ha avuto una
lunghissima gestazione ma le tante speranze di rinnovamento non sono state
mantenute: niente centri di eccellenza; nessuna scuola internazionale di
dottorato progettata; no a un sistema di post dottorandi; disattenzione
totale all’internazionalizzazione e al reclutamento all’estero; risorse
finanziarie incerte; ritardi nell’organizzazione e gestione del personale.
Cosa potrebbe fare il nuovo ministro? Innanzitutto porre all’Ente scadenze
molto precise, anche temporali, soprattutto se vorrà modificare il consiglio
di amministrazione del Cra. Gianni Alemanno lo rinnovò e l’intera
Legislatura è trascorsa senza che si sia conseguito uno stato di
funzionamento definitivo. Il nuovo ministro, se vorrà cambiare, deve
chiedere che entro un anno i Dipartimenti funzionino, che le nomine dei
direttori a tutti i livelli siano completate, che il consiglio di
amministrazione presenti un progetto preciso in tempi, modi e necessità di
risorse rivolto al rinnovamento delle strutture, oggi inadeguate anche se
confrontate con quelle di Paesi emergenti.
Solleciti inoltre la messa in atto:
- di un sistema di controllo del funzionamento dei Centri di ricerca che
vada oltre a quello delineato negli statuti e regolamenti;
- dell’uscita da un sistema poco chiaro e insufficiente di assegnazione di
fondi alle strutture;
- di una procedura di assunzione di dottorandi e post dottorandi su
progetto, iniziativa che diminuisca radicalmente l’età media degli addetti
(oggi tra i 50 e i 60 anni);
- della riadozione di modalità di assegnazione dei fondi su progetto con
valutazioni da parte di commissioni scientifiche con chiamate nazionali.
è essenziale che il ministro ponga la direzione e il consiglio di
amministrazione dell’Ente sotto pressione, a costo di richiedere sedute
consigliari permanenti. L’Ente rischia, infatti, di scomparire per messa in
pensione degli addetti prima che, con i tempi attuali, se ne completi il
funzionamento. Dia vita, inoltre, a comitati scientifici elettivi che
stimolino la partecipazione dei ricercatori alla gestione dell’Ente.
E sulla necessità di internazionalizzazione?
C’è prima una necessità nazionale: come coordinare la ricerca del Cra, del
Cnr, dell’Università e delle Regioni. Negli ultimi 50 anni questa funzione è
stata, nei fatti, delegata al Mipaf, ma il Ministero ha rinunciato negli
ultimi anni a questo ruolo.
Qualcosa di buono fa il Miur, il Ministero per la ricerca: recentemente ha
raccolto la richiesta nazionale di partecipare con fondi suoi ai progetti
europei sui genomi delle piante agrarie. Servirebbe comunque un forte
coinvolgimento del Tavolo Stato-Regioni, anche nel disegno delle politiche
di ricerca del settore agricolo: definite, queste, nelle loro valenze
regionali. Al Mipaf potrebbe essere lasciata la componente strategica
rivolta al futuro, e cioè: il coordinamento tra istituzioni ed enti; i piani
di sviluppo delle strutture di eccellenza e delle piattaforme tecnologiche;
la partecipazione ai progetti internazionali, per esempio di genomica e di
quanto ne consegue e infine l’organizzazione della domanda di ricerca
agraria.
Lei ha fatto un accenno al rilancio dell’industria nazionale dei mezzi
tecnici agricoli. Perché e come?
Dopo la scomparsa della Federconsorzi il Paese non ha più avuto una
possibilità di essere presente in modo significativo in questo importante
settore, con una organizzazione di respiro almeno nazionale. è chiaro,
comunque, e a tutti, che l’innovazione per l’agricoltura è stata, negli
ultimi 30 anni, in larga parte di provenienza internazionale: mi riferisco a
fitofarmaci, molecole per la veterinaria e la zootecnica, semi e materiale
genetico di polli, suini, bovini, materiale vegetale micropropagato, starter
microbici per le trasformazioni dei prodotti agrari e microbi comunque
utili, componenti elettroniche della meccanica agraria, e altro ancora.
Al di là della facile e superficiale polemica del ministro, la presenza
delle multinazionali nel settore agricolo in Italia è stata ed è positiva.
Ci si domanda, tuttavia, perché il Paese non dovrebbe partecipare a questo
mercato con un’industria nazionale molto più significativa, capace di
competere almeno nel mercato europeo se gli interventi in ricerca agraria –
particolarmente costosi – devono essere coperti dall’accesso a un mercato
sufficientemente ampio. La risposta è certamente positiva... ma dipende
dalle attività di cluster di ricerca pubblico-privati dove sono presenti e
attivi ricercatori di punta, piattaforme tecnologiche avanzate, incubatori
d’impresa, servizi per la crescita e il sostegno di piccole industrie ad
alta tecnologia, interesse all’investimento di capitali e quant’altro è
propedeutico allo sviluppo di distretti industriali avanzati.
Ritorniamo, anche in questo ambito, a richiamare e mettere a fuoco il ruolo
degli interventi già sollecitati nelle risposte precedenti: riorganizzare i
Centri del Cra e delle altre istituzioni pubbliche dedicate alla ricerca
agraria; adottare strumenti per il trasferimento tecnologico; nutrire una
forte convinzione che il settore pubblico ristrutturato e dotato di uomini e
risorse adeguati è in condizione di generare imprese, senza avere timori o
addirittura pretese di non «contaminarsi» nell’assistere l’industria
privata. Per quanto paradossale questa richiesta possa sembrare, fare
impresa a partire da politiche di pianificazione pubbliche ha forti
implicazioni sociali: basta ricordare che il Paese esporta al momento
cervelli e importa operai a basso livello, e che la creazione di posti di
lavoro per laureati e scienziati è quanto di più serio si possa offrire alle
giovani generazioni.
Professore, ma quanto è realistico credere che chi ha responsabilità a
tutti i livelli nel sistema ricerca agraria possa seguire i suoi consigli
per rendere le sue proposte praticabili?
è una domanda corretta, alla quale posso rispondere citando una recente
esperienza. Nella posizione di presidente di una commissione Civr (Comitato
di indirizzo per la valutazione della ricerca) di valutazione della ricerca
condotta negli ultimi anni dalle Università di agraria e veterinaria e da
altri enti nazionali pubblici, ho partecipato a un incontro tenutosi presso
la Conferenza dei rettori degli atenei italiani, incontro a cui erano stati
invitati i rappresentanti degli enti valutati.
La relazione finale della mia Commissione conteneva le graduatorie di merito
delle diverse sedi universitarie e degli altri enti, nonché conclusioni sul
loro stato di salute in termini di ricerca svolta e di gruppi disciplinari
più attivi.
Non è stato un incontro facile, considerato che era la prima volta che il
Paese metteva in atto iniziative di controllo della produttività scientifica
e che la metodica utilizzata non era tale da poter render conto, sulla base
degli 850 prodotti valutati (pubblicazioni e brevetti), della oggettività
della valutazione, specialmente della posizione relativa delle scienze
considerate nei confronti di altre discipline, biologiche, fisiche e
chimiche, per esempio.
I rappresentanti degli enti a confronto presenti all’incontro sono stati,
comunque molto vivaci, puntigliosi nel chiedere spiegazioni a tutti i
livelli, addirittura in qualche caso polemici e critici se non risentiti.
Alla fine della riunione mi sono ritrovato sorpreso in senso positivo: i
presenti avevano uno spiccato senso di identificazione con le loro
strutture; soprattutto erano stati aperti al confronto che volevano e che
alimentavano con la discussione.
Ho ricordato l’episodio per sottolineare che la risposta alla sua domanda è
positiva per quanto riguarda la componente professionale dei sistemi di
ricerca agraria nazionale. Altrove si devono invece collocare le
responsabilità che hanno priorità più elevate: per l’internazionalizzazione,
le risorse, il reclutamento del personale, il rinnovamento delle strutture,
la creazione dei cluster di ricerca, il trasferimento tecnologico.
Dove? Provi, su questi temi, a coinvolgere il nuovo ministro!
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