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L’acqua, una questione cruciale |
L’Italia è in forte ritardo rispetto agli altri Paesi europei nella
programmazione e nella gestione di questo bene fondamentale. L’agricoltura
ha un ruolo assai importante per contribuire a risolvere i problemi di
scarsità delle risorse idriche
Aprile, ogni giorno un barile», si diceva una volta. Oggi non lo si dice
quasi più e non bastano le poche recenti piogge per smentire il fatto che
l’acqua sta diventando un bene sempre più scarso. Al punto che quest’anno lo
slogan della Giornata mondiale dell’acqua è stato «Fronteggiare la scarsità
d’acqua».
Le preoccupazioni vertono non solo sulla quantità bassa, resa sempre più
evidente dai cambiamenti climatici, ma anche sulla scarsa qualità.
L’agricoltura è il settore maggiormente chiamato in causa, poiché è quello
che preleva più acqua nel mondo.
Più del 70% dei prelievi idrici è per l’irrigazione, con consumi prossimi al
100% nei Paesi in via di sviluppo, dov’è situata la maggioranza dei terreni
irrigui.
Se teniamo conto che la popolazione mondiale sta crescendo a ritmi
vertiginosi (da 6 a 8 miliardi nei prossimi vent’anni), è evidente che
l’acqua rappresenterà una delle questioni cruciali del futuro del pianeta.
Non si tratta solo di produrre più alimenti con meno acqua, il che potrà
essere ottenuto grazie a un augurabile miglioramento delle tecnologie, ma
anche di assicurare ai popoli l’accesso all’acqua per risolvere i gravi
problemi di potabilità e di igiene, che oggi portano a livelli tragici la
mortalità nei Paesi poveri. L’agricoltura, però, non sta solo dietro al
banco degli imputati, ma anche tra i possibili risolutori del problema
idrico mondiale.
Secondo il professor Tony Allan, il commercio internazionale di prodotti
agricoli può giocare un ruolo importante in questo senso. Quando un Paese
con scarse disponibilità idriche importa derrate da un Paese ricco d’acqua,
implicitamente acquisisce anche una certa quantità di «acqua virtuale»
(l’acqua necessaria a produrre quel bene).
Se le cose sono ben organizzate, l’esportatore usa soprattutto acqua «verde»
(la pioggia, che non costa nulla) mentre l’importatore risparmia acqua «blu»
(l’acqua irrigua, che costa molto), che potrà quindi essere destinata ad
altri usi prioritari.
Si tratta, in sostanza, di un’applicazione del principio del vantaggio
comparato, ben conosciuto dagli economisti. In verità, le cose sono un po’
più complicate, perché vi sono in gioco interessi nazionali strategici, che
vanno al di là del puro meccanismo economico. In ogni caso, l’ampia
diffusione sociale del concetto di acqua virtuale ha il merito di tenere
vivo un dibattito globale sull’interazione tra gestione delle risorse
idriche, lotta alla povertà, sicurezza alimentare e commercio agricolo
internazionale.
E in Italia, a che punto siamo? L’Italia fa parte dell’Europa e la politica
idrica europea è sostanzialmente regolata dalla direttiva quadro n.60/2000,
che si prefigge obiettivi di tutela della qualità delle acque e di
razionalizzazione dell’utilizzo delle risorse idriche, nel rispetto dei
principi di «riduzione del danno alla fonte», «chi inquina paga» e «recupero
del costo pieno».
Il fine pratico, molto ambizioso, è di conseguire un «buono stato delle
acque superficiali e sotterranee» entro il 2015, integrando le misure di
tutela della qualità con quelle che regolano le quantità impiegate.
Pochi giorni fa è stato presentato il primo rapporto di monitoraggio dello
stato di attuazione della direttiva quadro presso l’Unione Europea. La
situazione complessiva è molto variegata, ma quella italiana è piuttosto
chiara: siamo quasi sempre nelle ultime posizioni. Ciò vale sia riguardo
all’organizzazione amministrativa (la ripartizione in distretti idrografici
è definita «illogica e non in linea» con la normativa), sia all’elaborazione
delle analisi economico-ambientali (ci segnaliamo per i molti casi di
«assenza di dati»).
Le indagini fatte a livello nazionale indicano, accanto a situazioni non del
tutto sconfortanti sulla qualità media delle acque, anche gravi debolezze:
insufficienza delle valutazioni di impatto; ritardi nei servizi di
monitoraggio da parte delle Arpa; basso livello di applicazione dei principi
di «recupero costo pieno» e «chi inquina paga»; ridotta partecipazione delle
parti interessate, quali gli agricoltori. Insomma, nella programmazione
siamo molto indietro.
Il primo passo per risolvere un problema è quello di comprenderne a fondo la
struttura e le dimensioni. Perciò, non sarà certo rimanendo gli ultimi della
classe in Europa che sapremo risolvere i tanti problemi della gestione delle
acque nel nostro Paese e nel mondo.
Finora abbiamo dormito un po’ troppo, ma c’è tempo per recuperare.
«Aprile, dolce dormire», si usa dire. Sarà dolce, ma sarebbe diabolico
dormire anche gli altri undici mesi.
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