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La bella sorpresa dell’agricoltura «trainante» |
In Italia vi è una minoranza di aziende, che produce ben il 90% del
fatturato del settore, caratterizzata da buona efficienza, innovazione e
propensione al mercato. In parte si rovescia così il luogo comune
dell’agricoltura assistita
Trilussa è stato un arguto poeta romano del primo Novecento il quale con
i suoi sonetti ha raccontato molte più cose che con discorsi importanti.
Famoso è il sonetto dei «polli di Trilussa» che chiarisce come la statistica
assegni un pollo a testa anche se a qualcuno non va alcun pollo e ad altri
ne vanno due.
Le statistiche italiane sull’agricoltura affermano che abbiamo un milione e
mezzo di aziende di superficie non superiore ai 6 ha e di reddito modesto se
non negativo.
Il Censis, un istituto di ricerca famoso nel nostro Paese che da quarant’anni
sforna analisi fantasiose e intelligenti sulla società italiana, ha
presentato nei giorni scorsi al Forum di Confagricoltura a Taormina uno
studio che capovolge alcuni luoghi comuni sulla nostra agricoltura
(www.censis.it).
Giuseppe De Rita, segretario generale della Fondazione Censis, ha presentato
il lavoro con tutto il suo carisma.
Come nella premessa di questo editoriale, il lavoro si occupa di colui che
mangia «due polli» trascurando i «poverelli» con «zero polli».
Trattando di imprese economiche e non di consumatori, la cosa è positiva, di
grande interesse e speranza. Il 27% del totale delle aziende italiane,
490.000, realizza il 90% del fatturato dell’agricoltura italiana. E fin qui
niente di nuovo. È un dato noto, ma volutamente trascurato dai politici e
dai sindacati per mille ragioni. Vi è dunque una concentrazione di aziende
ad alto fatturato; potrebbero essere solo aziende grandi, latifondiste si
diceva negli anni Cinquanta, e nient’altro.
De Rita sostiene invece cose ben più interessanti. Tra queste aziende con
alto fatturato De Rita ha scoperto aziende efficienti, rivolte al mercato e
innovative.
Sono definite, con giusto compiacimento, come la «minoranza trainante». Il
Censis non entra elegantemente nei calcoli economici, ma si sofferma su
elementi di fondo.
Non è cosa da poco, quando da tempo l’insieme delle aziende italiane è in
crisi.
L’analisi di un campione di queste aziende «trainanti» con un fatturato
medio di circa un milione di euro rivela elementi di notevole interesse.
Innanzitutto, nonostante la dimensione, la presenza famigliare è forte: non
solo una buona parte della famiglia si occupa dell’azienda, ma quasi la metà
ha nei figli e famigliari giovani eredi determinati a continuare l’attività.
Dunque, se vi sono motivazioni economiche non vi è la fuga dei figli. Si
tratta di aziende che hanno costruito reti di collaborazione e scambio con
altre aziende, agricole e no.
Anche questo suona nuovo: da secoli si stigmatizza l’isolamento dell’azienda
agricola. Il rapporto non parla «espressamente» di filiera corta, da molti
teorizzata come una soluzione per incamerare valore aggiunto, si parla
piuttosto di grande apertura verso il mercato con sistemi diversificati di
fidelizzazione verso i clienti e sistemi di produzione e vendita mediati
dall’industria. Inoltre è importante il controllo dei processi produttivi,
con innovazioni di processo e di prodotto e la politica di valorizzazione
del proprio marchio.
Queste aziende praticano una politica di mercato definita «proattiva», che
interpretiamo come «piena di iniziative».
Relativamente al rapporto con le altre aziende, appare che la maggioranza di
esse trovi dalla collaborazione l’ispirazione e la forza per innovazioni di
processo e di prodotto. L’emulazione ha grande importanza.
Ci pare di poter concludere con gli autori che nel Paese esiste un gruppo di
aziende, in genere grandi, almeno per fatturato, che hanno accettato la
sfida dello smantellamento della pac, dell’internazionalizzazione dei
mercati, pur essendo su basi famigliari. E già questa è una bella sorpresa.
Le loro richieste non sono la domanda di sussidi, che pure non disdegnano,
ma piuttosto un coro di minore burocrazia, manodopera più qualificata e
specializzata.
Vi è poi il problema bancario: gran parte di queste aziende si rivolge
infatti al credito ordinario. Così non va.
Qualsiasi speculatore edilizio viene accolto dalle banche a braccia aperte,
come notizie recenti testimoniano, perché gli agricoltori capaci, invece,
no?
In sintesi, dunque, abbiamo un panorama che è tutto l’inverso di quello dei
«padroni dalle belle braghe bianche», come un tempo venivano dipinte queste
aziende. È evidente che il modello di questi nuovi imprenditori non può
essere esteso più di tanto, ma è già molto.
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