Con quale modello estetico si confronterà il vino del futuro? Prevarrà
il giudizio secondo i canoni correnti della qualità delle guide e dei
concorsi, o quello evocativo legato ai suoi valori gusto-olfattivi?
È difficile immaginare quali fossero in passato i profumi del vino: le
scarne descrizioni che ci sono giunte sulle sue caratteristiche
organolettiche raramente riportano dei profumi specifici, soprattutto
perché, tra i sensi, l’olfatto era considerato il più vicino al fiuto degli
animali e questo avvicinava l’uomo alle bestie.
Inoltre la fugacità delle sensazioni olfattive ostacolava la memorizzazione
delle sensazioni, anche se, fin dall’antichità, si affermava che il naso era
l’organo di senso più vicino al cervello e, quindi, all’origine del
sentimento: lo squisito profumo dei fiori «sembra esistere unicamente per
l’uomo», affermava Haller alla fine del 1700.
Prima della chimica detta «pneumatica», che si sviluppa come conseguenza
delle scoperte della respirazione e della combustione di Lavoisier e che
definisce l’aria un miscuglio di gas che sono alla base della sua «qualità»,
all’odore sgradevole che spesso ammorbava l’aria della città si attribuiva
il significato della disorganizzazione e del disordine, mentre il profumo
era alla base del principio vitale, attribuendo così all’odore un ruolo
sociale: l’odore dei ricchi era diverso da quello dei poveri.
Aromi e profumi erano allora non solo gli unici strumenti utilizzati per
abbassare le soglie di tolleranza agli odori, ma, ingenuamente, venivano
considerati antidoti alle malattie, quali la peste, sempre associate alle
sensazioni olfattive sgradevoli.
In questa logica tutto ciò che si consumava era aromatizzato: vino, tabacco,
cibi, soprattutto quelli da conservare, ma questo mascheramento olfattivo ne
provocava l’abuso e la sofisticazione. Necessario era, quindi, il ritorno
dall’artificio alla natura. L’innovazione associata ai profumi e agli aromi,
anche del vino, consiste oggi nella possibilità di esaltazione della memoria
olfattiva, nella ricerca del segno mnemonico inconscio, nel confronto tra
passato e presente imposto dall’odore riconosciuto. Nulla rievoca con tanta
evidenza luoghi cari, situazioni rimpiante, istanti di gioia quanto una
sensazione odorosa.
L’odore animale del muschio, i descrittori di yogurt, il profumo di
fermentato del fieno bagnato, di cioccolata o di vaniglia, del sudore,
dell’urina di gatto di molti vini altro non sono che i ricordi della nostra
infanzia, dei nostri odori, di quelli degli ambienti di gioco, dei nostri
abiti, dei cortili. Gli odori come sentinelle del passato, al limite della
memoria, quasi immemorabile (Le Guèrer nei «Poteri dell’odore»). Per Luigi
de Caro, filosofo, il vino è un oggetto culturale complesso che viene
trattato sotto molti punti di vista. Per un enologo è una sostanza chimica,
per un consumatore salutista un alimento o un farmaco, per un commerciante
una merce, ma per un degustatore è un oggetto estetico che, attraverso le
sensazioni che riesce a trasmettere, rappresenta un valore estetico.
Questa la differenza tra il bere e il degustare, dove per bere è sufficiente
il piacere fisico, mentre per degustare ci vuole anche intelligenza e
competenza, come magistralmente afferma Peynaud. Ma cosa fa di un vino un
oggetto estetico? Non certamente i contenuti meramente sensuali, ma quelli
spirituali, i suoi valori gusto-olfattivi.
«L’olfatto, facendo parte di un complesso di impressioni sensoriali diverse,
cioè dei sensi del gusto, della temperatura e del tatto del cavo orale,
contribuisce a costituire le forme dei cibi», afferma Katz nella sua
«Psicologia della forma» del 1948, in cui viene rifiutata una descrizione
psico-chimica, atomistica del vino quale sommatoria di sensazioni tattili,
termiche e sensoriali per considerare, invece, l’effetto sinergico delle sue
parti che supera quello della somma delle stesse. Nella fruizione di un vino
gli atteggiamenti estetici sono di tipo normativo o evocativo. Per il primo,
il vino è un artefatto più o meno perfetto secondo i canoni correnti della
qualità (vedi guide varie o punteggi nei concorsi) che attualmente sono
rappresentati o dalla potenza (concentrazione, corpo, struttura) o
dall’eleganza (finezza, delicatezza, complessità). Per il secondo, invece,
nel vino sono ricercati gli aspetti interiori, quelli dell’anima, la sua
poesia.
La sua immagine più bella è quella del vino come una danza, i suoi profumi
disegnano un movimento. Un grande vino disegna arabeschi di profumi, è
mobile, dispiega forze dinamiche, come afferma Dufrenne nella «Fenomenologia
dell’esperienza estetica» del 1953.
Con quale di questi modelli si confronterà il vino del futuro? Noi speriamo
con il secondo, quello che Brentano nella sua «La psicologia dal punto di
vista empirico», ama come un amico, cioè non solo nel senso che lo si
desidera come qualcosa di buono e di cui si gode con piacere, ma proprio nel
senso che si ama perché gli si augura del bene. Riusciremo con i soli
strumenti della ricerca scientifica a ottenere ciò?
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