POLITICA |
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Si scrive consulenza aziendale ma si legge
burocrazia e costi aggiuntivi |
Bisognerà vigilare affinché l’audit non diventi solo un onere per
l’azienda
La chiamano consulenza aziendale, ma è pura burocrazia ed è una maniera come
tante altre per far aumentare i costi a carico delle aziende agricole.
Stiamo parlando del sistema di consulenza aziendale (audit), introdotto
dall’Unione Europea con la riforma di medio termine della pac nel 2003, come
strumento collegato con la condizionalità.
In pratica, si tratta di una forma particolare di assistenza tecnica
indirizzata a favore degli agricoltori per aiutarli a conformarsi ai
requisiti di gestione obbligatori e alle buone pratiche agronomiche e
ambientali, il cui mancato rispetto comporta il taglio dei pagamenti
comunitari e, nei casi più gravi, la perdita totale degli aiuti.
Il regolamento sullo sviluppo rurale (1698/2005) ha approfondito e fornito
ulteriori dettagli sulle caratteristiche di questa nuova misura che è
entrata a far parte del già ampio menu delle opzioni del secondo pilastro
della pac. In particolare, sono stati due i livelli di attivazione della
consulenza: uno minimo di base, finalizzato a una corretta applicazione a
livello aziendale del rispetto dei requisiti ambientali, e l’altro più
avanzato che va oltre la condizionalità e sconfina nel supporto alle
decisioni e alle pratiche aziendali mirate alla competitività e
all’innovazione.
Per il momento, l’agricoltore non è obbligato a servirsi della consulenza
aziendale e il ricorso a tale servizio è volontario. A livello di Stati
membri, però, occorre necessariamente implementare il sistema di consulenza:
ed è quello che il nostro Paese ha fatto, imponendo alle Regioni di attivare
il nuovo strumento a decorrere dal gennaio 2007.
Non è detto che con la diffusa rincorsa a trovare a ogni costo delle
giustificazioni all’esistenza della pac e alle relative misure di sostegno
dell’agricoltura, con i conseguenti costi sul bilancio dell’Ue, non si
arrivi nel medio termine a trasformare in obbligatorio il ricorso delle
aziende agricole alla consulenza aziendale.
In tal modo, gli agricoltori avrebbero un ennesimo interlocutore con il
quale confrontarsi, distraendo l’attenzione dalle attività caratteristiche
dell’imprenditore agricolo che, sempre di più, si stanno spostando dalla
capacità tecnica, organizzativa e produttiva, a quella di tipo marketing
oriented (rapporti con gli altri operatori economici, creazione del marchio,
vendita diretta, ecc.).
Oltre ad essere una possibile fonte di scocciature, la consulenza aziendale
ha un costo che rimane «sul groppo» dell’azienda. Infatti, il contributo che
proviene dal Piano regionale di sviluppo rurale, ammesso che la domanda sia
accolta favorevolmente, è parziale e temporaneo.
Ad un certo punto i finanziamenti pubblici non ci saranno più, ma la
consulenza aziendale rimane e dovrà essere pagata con soldi aziendali.
Una dimostrazione robusta che il cosiddetto audit non è una misura amica
dell’imprenditore agricolo è emersa nel corso di un convegno che si è tenuto
nei mesi scorsi a Bruxelles, nell’ambito del quale un autorevole dirigente
della Commissione agricoltura ha testualmente affermato che la
condizionalità è una «misura decorativa» dell’attuale pac. Ne discende che
il sistema della consulenza aziendale è ancora meno, essendo un’appendice
della condizionalità.
Purtroppo, però, i giochi sono fatti e ora si deve parlare della concreta
applicazione dell’audit a livello regionale. Spetta a queste istituzioni,
infatti, gestire la misura nell’ambito dei relativi piani di sviluppo
rurale; fissare le regole di funzionamento, fermo restando i principi
basilari previsti dalla normativa comunitaria; emanare i bandi per
selezionare gli organismi di consulenza che sono abilitati a erogare i
relativi servizi agli agricoltori, nonché raccogliere le domande di questi
ultimi e provvedere ai pagamenti.
Le Regioni credono a questo nuovo approccio sancito dall’Unione Europea;
l’hanno dimostrato nei loro programmi regionali di sviluppo rurale per il
settennio 2007-2013. Alla consulenza aziendale sono state destinate risorse
importanti. Abbiamo preso in considerazione tre Regioni (Campania,
Emilia-Romagna e Piemonte) le quali dedicano da 12 a 20 milioni di euro per
i sette anni di programmazione, con una incidenza sulla spesa pubblica
complessiva che oscilla da un massimo del 2,2% del Piemonte a un minimo
dell’1,2% dell’Emilia-Romagna.
Soldi che fanno gola a molti e soprattutto agli organismi che saranno
autorizzati a effettuare le attività di consulenza, i quali intravedono un
ricco business, data la numerosità delle aziende agricole italiane.
Per tale motivo è partita la corsa all’accreditamento delle società di
consulenza, le quali però farebbero bene a non considerare gli agricoltori
come delle «vacche da mungere» e prepararsi a svolgere con la massima
professionalità le funzioni previste. A tal riguardo è fondamentale il ruolo
delle Regioni, che hanno il difficile compito di fissare le regole del gioco
e stabilire precisi paletti finalizzati a evitare comportamenti puramente
opportunistici.
Come abbiamo ricordato, il sistema di consulenza aziendale nasce male. Le
possibilità che si risolva in una cosa utile per l’impresa agricola sono a
oggi limitate. Almeno si faccia in modo che non diventi una inquietante
presa in giro.
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