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L’«effetto serra» si vince anche dai campi |
L’agricoltura può svolgere un ruolo decisivo nell’assorbire l’anidride
carbonica in atmosfera grazie a pratiche che favoriscano l’incremento della
sostanza organica nel terreno. Queste attività si possono misurare e devono
essere pagate
Spesso si è guardato all’agricoltura come a un settore che genera effetti
solo negativi sull’ambiente.
Ciò, oltre a rappresentare una evidente distorsione della realtà, genera
anche un clima culturale negativo presso l’opinione pubblica che certo non
facilita un’adeguata comprensione delle reali dinamiche del settore, anche
quando esse contribuiscono, in realtà, all’aumento del benessere della
collettività. In particolare, sono ancora ignorate, troppo spesso, le azioni
positive che il settore può svolgere, e in diversi casi ha svolto e svolge,
sull’ambiente.
In economia questi effetti, sia positivi sia negativi, che un’attività
economica può generare su altre attività senza che vi sia alcun pagamento,
in un senso o nell’altro, sono definiti come esternalità; cioè attività
svolte al di fuori del mercato. Nel caso di esternalità positive, l’assenza
di specifici incentivi di natura economica determina un livello di attività
«troppo basso» in quanto i benefici privati sono minori di quelli pubblici
(o sociali).
In questo caso, se non si passa attraverso un’adeguata e corretta
valutazione monetaria dell’esternalità e una conseguente introduzione di
specifici meccanismi di incentivo e/o disincentivo, il raggiungimento della
soluzione ottima dal punto di vista sociale resta assai improbabile. Così,
ad esempio, poiché la collettività «non paga» per l’azione di gestione
dell’assetto idrogeologico del terreno, specie in aree di collina e
montagna, connesso a determinate attività produttive agricole, come ad
esempio quelle di gestione di prati e pascoli, ne consegue che
l’agricoltore, rispondendo solo ai prezzi dell’erba o del fieno che ne
ricava, tende inevitabilmente a ridurre tale attività ma anche, di
conseguenza, l’attività di gestione del territorio.
I costi che tale mancata cura genera poi sulla collettività, specie quella
di pianura, sono purtroppo sempre più evidenti a tutti e quantitativamente
importanti (frane, smottamenti, alluvioni, ecc.).
Uno dei temi che in questi ultimi anni va assumendo importanza crescente,
sia a livello di ricerca scientifica che di opinione pubblica, è quello dei
cambiamenti climatici dovuti, tra l’altro, all’immissione in atmosfera di
crescenti quantità di anidride carbonica (CO2) con il conseguente incremento
del cosiddetto «effetto serra».
Anche a questo proposito l’agricoltura viene talvolta considerata,
superficialmente, solo come una delle fonti di «inquinamento». Certo, tutti
gli animali allevati respirano e producono, anche per mezzo di
fermentazioni, quantitativi di metano e protossido di azoto che in atmosfera
generano effetto serra. Non si può nemmeno dimenticare che anche la
fermentazione dei reflui zootecnici provoca, in certa misura, l’emissione in
atmosfera di gas a effetto serra.
Tuttavia, ancora una volta ci si dimentica che la stessa agricoltura svolge,
ma potrebbe svolgere ancor più, un ruolo decisivo nella riduzione della
quantità di CO2 nell’atmosfera, se fossero adeguatamente riconosciuti gli
effetti positivi di alcuni comportamenti e alcune specifiche attività.
I suoli agrari, infatti, costituiscono un potenziale di notevole entità per
l’assorbimento del carbonio: è stato calcolato, ad esempio, che un
incremento dello 0,1% di carbonio organico nei suoli italiani porterebbe
all’assorbimento di circa 275 milioni di tonnellate di CO2 equivalente, pari
alla metà delle emissioni totali annue dell’Italia, includendo, quindi,
tutte le emissioni dell’industria, dei trasporti, quelle domestiche, ecc.
Un contributo di questo tipo, che potrebbe anche sommarsi a quanto si può
fare con una buona e ben regolata attività di forestazione, non è certamente
trascurabile anche se, ovviamente, è tutt’altro che banale da realizzare.
Tuttavia, come ben sanno gli agricoltori più avveduti, l’incremento di
sostanza organica nel terreno si può ottenere con un impiego razionale delle
rotazioni, con una migliorata restituzione della sostanza organica non
utilizzata per fini immediatamente produttivi, con una distribuzione di
compost, ecc.
La quantità di sostanza organica nel terreno, inoltre, è quantificabile in
modo relativamente semplice e poco costoso: quindi potrebbe anche essere
relativamente semplice misurare l’incremento ottenuto in un certo periodo di
tempo.
In altre parole, non sarebbe impossibile prevedere specifiche misure, anche
nell’ambito dei prossimi Piani regionali di sviluppo rurale, per
quantificare in termini economici il ruolo dell’agricoltura nella riduzione
del carbonio atmosferico e tradurlo in modo efficace in una forma innovativa
di sostegno.
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