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Produrre solo ciò che si riesce a vendere |
La frutta può uscire dalla crisi di mercato in cui versa solo se i
produttori riusciranno a programmare e controllare l’offerta. I mercati
dell’Est offrono opportunità interessanti, ma molto difficili da conquistare
È certo che la scomparsa o comunque la sensibile riduzione della
frutticoltura significherebbe una perdita irrecuperabile di benessere per il
nostro Paese. È infatti difficile intravedere attività alternative in grado
di sostituirla in termini di occupati e di contributo alla formazione del
reddito nazionale. L’accentuarsi della crisi del settore ha diffuso negli
operatori pessimismo a dosi letali. Bisogna quindi interrogarsi su una
possibile e realistica via d’uscita dalla crisi, che non si limiti alla
stanca e ripetitiva recita delle lodi della qualità delle produzioni
nazionali o alla esaltazione delle doti taumaturgiche delle indicazioni
d’origine. Argomenti buoni per fare audience presso un pubblico televisivo
in cerca di qualche nuovo diversivo o per accattivarsi consensi politici, ma
da soli non in grado di promuovere una seria politica commerciale.
L’apertura dei mercati, se da un lato crea problemi di concorrenza,
dall’altro aumenta molto la platea dei potenziali clienti. Per la
frutticoltura nazionale è naturale volgere lo sguardo ai Paesi dell’Europa
dell’Est e non solo ai membri presenti, prossimi e futuri dell’Unione.
Certamente quelle popolazioni consumeranno sempre più frutta e sempre di
migliore qualità. Entrare in maniera significativa in questi mercati
richiede una strategia coordinata, basata essenzialmente sui seguenti tre
punti:
- catene nazionali di distribuzione al dettaglio nel Paese importatore;
- organizzazione commerciale nel Paese d’origine in grado di controllare
l’offerta;
- aziende frutticole efficienti.
È ormai da tempo acquisito che le grandi catene di distribuzione al
dettaglio sono un elemento indispensabile nella commercializzazione della
frutta. La presenza di catene nazionali nel Paese importatore può risultare
un fattore strategico. Non per sperare in un trattamento preferenziale – il
supermercato fa giustamente il suo mestiere comprando dove costa meno – ma
per orientare sui prodotti nazionali le abitudini alimentari.
La gdo ha, infatti, maggiore propensione e convenienza a porre sopra i
banchi dei punti di vendita esteri prodotti facilmente disponibili e
conosciuti perché usualmente venduti nel Paese d’origine. Questo primo punto
è per noi molto sfavorevole. La grande distribuzione in Italia è cresciuta
tardi e poco, di conseguenza sono le nostre reti che oggi sono oggetto di
operazioni di acquisizione da parte dei concorrenti esteri e non viceversa.
Le ragioni del ritardo meriterebbero un’analisi approfondita che non è
possibile svolgere nel breve spazio; resta il fatto che in questo segmento
della filiera scontiamo un primo non trascurabile punto di debolezza.
La rete commerciale all’ingrosso, in parte rilevante organizzata in forma
cooperativa, per essere competitiva necessita di alcuni interventi di
ridimensionamento e razionalizzazione delle strutture fisiche. La
cooperazione dovrebbe, poi, ribaltare completamente la propria mission: non
più vendere quello che i soci producono, ma far produrre ai soci ciò che si
riesce a vendere; non più svolgere la funzione di distribuire, ma quella di
creare valore aggiunto.
Questo richiede un’organizzazione commerciale a livello di prodotto in grado
di programmare e controllare una parte significativa della produzione. La
mancanza di un adeguato controllo della produzione e l’imperativo di vendere
tutta la produzione dei soci porta a deleterie forme di concorrenza al
ribasso nell’ambito della stessa struttura cooperativa. Sono necessari
quindi radicali cambiamenti di mentalità e di comportamento. Forse è più
agevole cambiare le strutture fisiche piuttosto che gli uomini.
Da ultimo, per competere sui mercati è necessario che il costo di produzione
sia molto contenuto per i prodotti di qualità media e non di molto superiore
per quelli di qualità più elevata. Insufficiente dimensione delle aziende,
inadeguatezza degli incentivi finanziari, eccessivo peso dei contributi di
bonifica sono i principali vincoli e impedimenti all’ammodernamento e
all’efficienza delle aziende frutticole.
La conquista di nuovi mercati richiede radicali cambiamenti di struttura
lungo tutta la filiera frutticola italiana, sostenuti da adeguate politiche
in grado di contrattare a livello europeo gli indispensabili aiuti
finanziari. Il resto sono solo chiacchiere.
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