POLITICA |
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Nuova sforbiciata sulla bietola italiana |
In arrivo il taglio del 12% della quota
Le perduranti eccedenze di zucchero spingono la Commissione a ridurre
la quota a tutti i Paesi, anche a quelli che hanno già dimezzato la
produzione come l’Italia. Funziona poco anche il Fondo di ristrutturazione,
troppo sbilanciato verso l’industria
La notizia, per niente inattesa in verità, ha destato comunque un certo
clamore.
La riforma dell’ocm zucchero, varata lo scorso ottobre, arranca e mostra già
qualche vistosa lacuna, prima tra tutte il mancato riequilibrio del mercato
dello zucchero in Europa, che permane in uno stato di eccedentarietà.
Il commissario Mariann Fischer Boel annuncia pertanto contromisure e
minaccia di ritirare (leggi: tagliare) provvisoriamente in ottobre 2 milioni
di tonnellate di contingente zucchero, pari al 12% delle quote di ciascuno
Stato membro.
Una misura legittima, visto che il ritiro di quota fa parte
dell’armamentario tecnico della riforma, che tuttavia appare difficilmente
accettabile sul piano dell’equità, alla luce del fatto che colpirebbe
indiscriminatamente (in modo lineare) tutti i partner.
Quello che non ha funzionario nel nuovo sistema – spiega il commissario – è
il Fondo di ristrutturazione (altro strumento della riforma) che non è
riuscito ad attirare sufficiente interesse tra gli operatori e ad assorbire
le quote delle imprese saccarifere più deboli, che avrebbero dovuto essere
ben diversamente allettate dai cospicui aiuti riconosciuti alla cessazione
della attività, e che invece hanno conferito al Fondo solo 1,6 milioni di
tonnellate di quote sui 4 milioni di obiettivo.
Considerato che Francia, Germania e Polonia hanno poi acquistato circa 0,86
milioni di tonnellate di quote dalla speciale riserva supplementare, la
produzione Ue rimane sempre sovrabbondante, il mercato continua a essere
pesante e le misure estreme inevitabili.
Manca l’equità
Almeno due sono le chiavi di lettura per interpretare la sortita del
commissario.
La prima, di evidenza immediata, riguarda l’Italia che perderà il 12% del
proprio contingente. Le sue imprese saccarifere, impegnate nello sforzo
economico di migliorarsi e di ristrutturarsi potenziando gli impianti, si
vedrebbero sensibilmente depauperate di un elemento patrimoniale, la quota,
sul quale hanno programmato budget e risultati di bilancio.
Tutto questo accadrebbe a un Paese che ha già ceduto al Fondo comunitario il
50% del contingente e che, dunque, ha già contribuito al risanamento del
mercato Ue: pertanto non appare equo che l’Italia debba nuovamente pagare un
altro conto oltre a quello già lautamente saldato; e che altrettanto
facciano anche gli altri Paesi che hanno ceduto contingente, come
Portogallo, Spagna, Finlandia e qualche altro.
Ma c’è anche una «ragione degli altri» da non sottovalutare, che ribalta
completamente l’angolo di visuale.
È quella dei Paesi più competitivi, che magari hanno comprato la quota
supplementare, e che ricordano come i principi ispiratori della riforma
siano la specializzazione e la selezione.
Giungendo alla conclusione che il taglio lineare semmai è un danno proprio
per loro, verbo incarnato della filosofia riformista, che le regole
comunitarie dovrebbero favorire e non penalizzare.
Equità di fatto contro ordinamento di diritto; cuore contro logica
normativa. Le contrapposizioni sono evidenti e il contrasto non componibile.In
questa situazione conflittuale, il ministro Paolo De Castro ha dichiarato «a
caldo» che l’Italia non apprezzerà un taglio lineare ma, nel commentare il
fatto, impiega un termine inadeguato alla gravità del problema e alle
conseguenze che le imprese italiane, e il settore nel suo insieme, si
troverebbero a pagare.
Appare corretto ricordare, come spesso fa il ministro, che i desiderata di
un solo Paese, per quanto legittimi, non possono prevalere in sede negoziale
sulla volontà (e il voto in Consiglio) degli altri 26; e che è necessario
pertanto cercare alleanze.
Nel caso specifico però la diplomazia si infrange contro un ordinamento
giuridico che non lascia speranze.
E che impone una presa di posizione molto chiara, anche a costo di
minacciare iniziative ostili e prive di bon ton, del tipo di quella adottata
dagli spagnoli nella vertenza sul cotone, impostata, e vinta, sul piano del
ricorso legale.
Agricoltori trascurati dal Fondo di ristrutturazione
La seconda chiave di lettura riguarda il Fondo di ristrutturazione
comunitario. Perché ha funzionato poco e male?
Secondo autorevoli – e interessati – commentatori francesi e tedeschi
l’insuccesso risiede nel fatto che il ricorso al Fondo premia solo l’anima
industriale della filiera rispetto a quella agricola.
Nella maggior parte dei casi inoltre, essi affermano, lo Stato membro decide
di ripartire al 90% l’aiuto alla ristrutturazione alla componente
saccarifera, mentre soltanto il 10% va agli agricoltori (da dividere per di
più con i contoterzisti).
Con queste premesse i produttori sono poco invogliati ad abbandonare e,
pertanto, anche le imprese saccarifere restano attive.
Dietro alla diagnosi fa capolino qualche ricetta: aumento dell’aiuto alla
ristrutturazione da devolvere interamente ai soli agricoltori e fissazione
preventiva in sede di regolamento della percentuale di spettanza dei
produttori, sottraendo all’arbitrio degli Stati membri la potestà in
materia, visto che si sono rivelati finora imprevedibili e più patrigni che
padri nei confronti dei produttori (all’Italia la «maglia nera», con il
riconoscimento ai bieticoltori di appena il 4% dei 730 euro/t di zucchero
dell’aiuto, a fronte del 6% ai contoterzisti e del 90% agli industriali).
Si arriva perfino a ipotizzare un potere di iniziativa nella cessione della
quota ai bieticoltori, invece che agli industriali.
Come non essere d’accordo sulle linee di principio? La domanda è retorica,
ma insieme a essa è doveroso porsi altri interrogativi sugli effetti che
strumenti così radicalmente innovativi potrebbero avere sull’intero sistema
produttivo e sulla compatibilità degli stessi con gli obiettivi di politica
economica e produttiva del settore, sui quali occorre attentamente
riflettere.
Il dibattito è appena aperto ed è prematuro tentare oggi proiezioni e trarre
elementi di certezza per il futuro, ma una cosa appare certa: per l’Italia.
è necessario impegnarsi fin d’ora in una discussione concertata, che
coinvolga tutte le forze istituzionali, economiche e sociali interessate,
affinché a Bruxelles non ci si trovi poi a giocare senza schemi preordinati
in una partita vitale, le cui regole sono state già tracciate.
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