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L'Informatore Agrario
Sommario rivista Approfondimento
5
 2 - 8 Feb.

  2007
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Editoriale

Liberalizzare sì, ma a patti chiari
Corrado Giacomini

Provvedimenti che aumentano la concorrenza sono buona cosa se è chiaro il quadro dell’azione di governo nel quale si inseriscono. Questo vale anche per l’agricoltura con l’estensione del disaccoppiamento a molti comparti

Non voglio entrare nel merito delle misure di liberalizzazione del mercato adottate in questi giorni dal Governo, ma credo che si possa convenire sul fatto che provvedimenti destinati ad aumentare la concorrenza e ad avere effetti positivi per i consumatori sono un bene, oltre che una necessità, per la nostra economia. Nel complesso si può affermare che l’opinione pubblica ha reagito favorevolmente a questi provvedimenti, tuttavia non sorprende che le diverse corporazioni, toccate nei loro specifici interessi, si oppongano o stiano cercando di opporsi alla loro definitiva approvazione.
Anche l’agricoltura ha avuto le sue «liberalizzazioni».
La riforma Fischler è stata, infatti, una vera e propria liberalizzazione: il passaggio al disaccoppiamento, rinunciando progressivamente alla protezione alle frontiere e alle misure di garanzia di prezzo, dovrebbe portare ad accrescere la concorrenza tra le imprese e, teoricamente, a ridurre anche i prezzi al consumo, sempreché gli effetti di riequilibrio dei prezzi si possano trasmettere sui nuovi mercati a dimensione internazionale senza la formazione di nuove forze di carattere monopolistico lungo le diverse filiere.
Anche la riforma Fischler è stata fortemente combattuta dalla «corporazione» degli agricoltori, nonostante che tutti si rendessero conto che la vecchia politica agraria della Comunità, durata per quasi quarant’anni, non aveva più alla base le ragioni che la giustificavano. In sintesi: la produzione era ormai passata dalla penuria alle eccedenze strutturali; le nuove esigenze di sviluppo dell’economia richiedevano un diverso impiego delle risorse del bilancio prima destinate all’agricoltura; gli ostacoli alla coesione tra i partner storici erano ormai stati rimossi; l’allargamento non consentiva l’estensione di misure di protezione e sostegno dei prezzi ai nuovi Paesi dell’Est; la scomparsa della logica dei grandi blocchi e la pressione dei Paesi emergenti alla porta dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) imponevano una decisa revisione della politica protezionistica finora attuata; per ultimo, ma non per importanza, è diminuito il peso dell’agricoltura nell’economia e nella società moderna.
Credo sia difficile non riconoscere che, essendo venute meno queste condizioni, non era più possibile continuare nella vecchia politica dei prezzi garantiti; certamente una politica molto comoda perché manteneva sul mercato anche le imprese che, in condizioni diverse, avrebbero dovuto uscirne e consentiva a quelle più efficienti di lucrare sulle posizioni di rendita. Non bisogna dimenticare, poi, che quella politica aveva concorso a mantenere la presenza degli agricoltori sul territorio, con benefici effetti sul piano dell’interesse collettivo.
Capisco quindi che gli agricoltori, e non solo quelli italiani, si scoprano ora «nudi», in particolare quelli per i quali la garanzia di prezzo era un segnale sicuro verso il quale indirizzare le scelte aziendali e, molto spesso, una vera e propria condizione di sopravvivenza. È vero che a ogni nuova decisione di estendere il disaccoppiamento, prima al tabacco, poi all’olio, quindi alle barbabietole, poi ancora al pomodoro e in prospettiva al vino, si può tentare di opporsi, ma forse le probabilità di successo sono inferiori a quelle dei farmacisti, degli avvocati, ecc.
I problemi dei farmacisti, degli avvocati, dei benzinai, ecc. sono però ben poca cosa rispetto alla caduta dell’intero castello su cui era appoggiata fino al 2003 la politica agricola comune. Non dobbiamo nascondercelo, anche se l’andamento congiunturale dei prezzi è stato abbastanza favorevole nell’ultimo anno, la nostra agricoltura è in uno stato di profonda crisi. Non la solita crisi di cui gli agricoltori si lamentano tutti gli anni, ma una crisi di identità, perché il valore assoluto della «produzione», per cui bastava la fatica per avere diritto a un prezzo, è venuto meno. A questo si aggiunge una grande incertezza sul futuro, perché sembra che non ci si possa più fidare della politica della Commissione.
Per concludere, le liberalizzazioni sono buona cosa quando è chiaro il quadro complessivo dell’azione di governo nel quale vengono a inserirsi; questo è quello che si chiede, infatti, anche al Governo Prodi.
La Commissione europea ha compiuto le sue scelte; ora spetta agli Stati coniugare quelle politiche in relazione alle caratteristiche delle diverse agricolture, in poche parole rispondere alle tante domande che gli agricoltori si pongono e alle quali finora nessuno ha risposto. Un contributo in questa direzione dovrebbero darlo anche le organizzazioni professionali, sia quelle che si sono opposte, sia quelle che si sono dichiarate favorevoli alla riforma Fischler.

Sommario rivista Corrado Giacomini


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