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Liberalizzare sì, ma a patti chiari |
Provvedimenti che aumentano la concorrenza sono buona cosa se è chiaro
il quadro dell’azione di governo nel quale si inseriscono. Questo vale anche
per l’agricoltura con l’estensione del disaccoppiamento a molti comparti
Non voglio entrare nel merito delle misure di liberalizzazione del
mercato adottate in questi giorni dal Governo, ma credo che si possa
convenire sul fatto che provvedimenti destinati ad aumentare la concorrenza
e ad avere effetti positivi per i consumatori sono un bene, oltre che una
necessità, per la nostra economia. Nel complesso si può affermare che
l’opinione pubblica ha reagito favorevolmente a questi provvedimenti,
tuttavia non sorprende che le diverse corporazioni, toccate nei loro
specifici interessi, si oppongano o stiano cercando di opporsi alla loro
definitiva approvazione.
Anche l’agricoltura ha avuto le sue «liberalizzazioni».
La riforma Fischler è stata, infatti, una vera e propria liberalizzazione:
il passaggio al disaccoppiamento, rinunciando progressivamente alla
protezione alle frontiere e alle misure di garanzia di prezzo, dovrebbe
portare ad accrescere la concorrenza tra le imprese e, teoricamente, a
ridurre anche i prezzi al consumo, sempreché gli effetti di riequilibrio dei
prezzi si possano trasmettere sui nuovi mercati a dimensione internazionale
senza la formazione di nuove forze di carattere monopolistico lungo le
diverse filiere.
Anche la riforma Fischler è stata fortemente combattuta dalla «corporazione»
degli agricoltori, nonostante che tutti si rendessero conto che la vecchia
politica agraria della Comunità, durata per quasi quarant’anni, non aveva
più alla base le ragioni che la giustificavano. In sintesi: la produzione
era ormai passata dalla penuria alle eccedenze strutturali; le nuove
esigenze di sviluppo dell’economia richiedevano un diverso impiego delle
risorse del bilancio prima destinate all’agricoltura; gli ostacoli alla
coesione tra i partner storici erano ormai stati rimossi; l’allargamento non
consentiva l’estensione di misure di protezione e sostegno dei prezzi ai
nuovi Paesi dell’Est; la scomparsa della logica dei grandi blocchi e la
pressione dei Paesi emergenti alla porta dell’Organizzazione mondiale del
commercio (Wto) imponevano una decisa revisione della politica
protezionistica finora attuata; per ultimo, ma non per importanza, è
diminuito il peso dell’agricoltura nell’economia e nella società moderna.
Credo sia difficile non riconoscere che, essendo venute meno queste
condizioni, non era più possibile continuare nella vecchia politica dei
prezzi garantiti; certamente una politica molto comoda perché manteneva sul
mercato anche le imprese che, in condizioni diverse, avrebbero dovuto
uscirne e consentiva a quelle più efficienti di lucrare sulle posizioni di
rendita. Non bisogna dimenticare, poi, che quella politica aveva concorso a
mantenere la presenza degli agricoltori sul territorio, con benefici effetti
sul piano dell’interesse collettivo.
Capisco quindi che gli agricoltori, e non solo quelli italiani, si scoprano
ora «nudi», in particolare quelli per i quali la garanzia di prezzo era un
segnale sicuro verso il quale indirizzare le scelte aziendali e, molto
spesso, una vera e propria condizione di sopravvivenza. È vero che a ogni
nuova decisione di estendere il disaccoppiamento, prima al tabacco, poi
all’olio, quindi alle barbabietole, poi ancora al pomodoro e in prospettiva
al vino, si può tentare di opporsi, ma forse le probabilità di successo sono
inferiori a quelle dei farmacisti, degli avvocati, ecc.
I problemi dei farmacisti, degli avvocati, dei benzinai, ecc. sono però ben
poca cosa rispetto alla caduta dell’intero castello su cui era appoggiata
fino al 2003 la politica agricola comune. Non dobbiamo nascondercelo, anche
se l’andamento congiunturale dei prezzi è stato abbastanza favorevole
nell’ultimo anno, la nostra agricoltura è in uno stato di profonda crisi.
Non la solita crisi di cui gli agricoltori si lamentano tutti gli anni, ma
una crisi di identità, perché il valore assoluto della «produzione», per cui
bastava la fatica per avere diritto a un prezzo, è venuto meno. A questo si
aggiunge una grande incertezza sul futuro, perché sembra che non ci si possa
più fidare della politica della Commissione.
Per concludere, le liberalizzazioni sono buona cosa quando è chiaro il
quadro complessivo dell’azione di governo nel quale vengono a inserirsi;
questo è quello che si chiede, infatti, anche al Governo Prodi.
La Commissione europea ha compiuto le sue scelte; ora spetta agli Stati
coniugare quelle politiche in relazione alle caratteristiche delle diverse
agricolture, in poche parole rispondere alle tante domande che gli
agricoltori si pongono e alle quali finora nessuno ha risposto. Un
contributo in questa direzione dovrebbero darlo anche le organizzazioni
professionali, sia quelle che si sono opposte, sia quelle che si sono
dichiarate favorevoli alla riforma Fischler.
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