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L'Informatore Agrario
Sommario rivista Approfondimento
4
 26 Gen. - 1 Feb.

  2007
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Editoriale

Ricerca pubblica, l’agricoltura chiede più concretezza

Giacomo Zanni

Il sostegno pubblico della ricerca dovrebbe essere sottoposto a severe procedure di valutazione, in modo da subordinare il finanziamento ai risultati conseguiti e consolidare così l’attuale ruolo complementare a quello della ricerca privata

Il mondo agricolo sta cambiando a tal punto che ora si discute anche sull’opportunità di cambiare nome alle Facoltà di agraria. In una Università, la Facoltà è l’istituzione che governa la funzione didattica. In essa sono attivate le lauree di primo e secondo livello. La ricerca è gestita dai Dipartimenti, ma nel senso comune la Facoltà rimane il luogo universitario per eccellenza. Perché cambiarne il nome?
Alcuni vedono bene «Scienze agrarie e dell’alimentazione», altri aggiungerebbero «dell’ambiente», altri ancora «del territorio».
La ragione di questo fermento nominalistico è che il settore primario, negli ultimi decenni, è sceso progressivamente di importanza, in termini di ricchezza prodotta e di addetti. Di conseguenza, anche la domanda di alta formazione nel settore agricolo è andata diminuendo. Parimenti, sono aumentati di importanza alcuni comparti collegati, in linea con l’espansione della multifunzionalità dell’agricoltura: per l’appunto, trasformazione alimentare, turismo, ambiente, territorio.
Ma l’attrattività delle Facoltà di agraria, nonostante i recenti sforzi di inserire corsi di laurea innovativi, non è risalita come sperato. Un problema serio, connesso con il precedente, è che anche i fondi pubblici per la ricerca agraria stanno diminuendo in modo continuo, fin dalla fine degli anni 80, periodo aureo del sostegno pubblico nella Ricerca & Sviluppo del settore.
C’è ancora bisogno di ricerca pubblica in agricoltura?
La ricerca porta innovazione e questa è fondamentale per recuperare competitività e imporsi sui mercati. Ma le imprese agricole presentano strutture deboli e non possono permettersi di investire in ricerca. I fornitori di mezzi tecnici, soprattutto le multinazionali, producono continuamente innovazioni per l’agricoltura, ma esse si concentrano in particolare su quelle i cui benefici sono più appropriabili sul piano commerciale. Per questo, il sostegno pubblico in R&S è ancora necessario. Peraltro, appare anche conveniente, a giudicare dai lusinghieri rendimenti economici dei progetti pubblici di ricerca agricola. In certi casi, si arriva a stimare tassi annui anche superiori al 100% dell’investimento. Talora le stime sono un po’ ottimistiche, poiché assegnano tutto il merito ai finanziamenti pubblici diretti, omettendo il contributo di altre fonti indirette. Ma in tanti casi la convenienza è ampiamente verificata.
Tuttavia, l’esistenza del sostegno non è una condizione sufficiente per il successo. Ciò che conta oggi è la qualità della spesa. Per questo, in un momento come quello attuale, caratterizzato da continui tagli ai fondi pubblici e da campagne che tendono a screditare l’Università, gli operatori delle istituzioni della ricerca agricola italiana dovrebbero essere impegnati nell’introduzione di severe procedure di valutazione, volte a subordinare il finanziamento ai risultati conseguiti.
Inoltre, oggi sappiamo che la capacità di utilizzare con profitto l’innovazione dipende in forte misura da abilità pregresse delle aziende adottanti, che sono conseguibili solo con una convinta partecipazione alle sperimentazioni. «Fare ricerca» non solo aiuta a produrre nuova conoscenza, ma anche a tradurla tempestivamente in forme utili per l’impresa. Perciò, occorre che l’innovazione sia realizzata garantendo un concreto dialogo tra pubblico e privato assicurando una reale compartecipazione delle aziende nel trasferimento.
Il sistema pubblico della ricerca agraria può scegliere tra tre percorsi strategici: ambire alla leadership, producendo innovazioni e imponendosi nella competizione con il mondo privato e gli altri Paesi; consolidare l’attuale ruolo complementare, ma in modo reattivo, assorbendo l’innovazione proveniente dall’esterno con l’adattamento; accettare la subalternità e accontentarsi della tecnologia prodotta altrove.
La prima via, che è quella indicata dall’Ue a Lisbona, richiede forti investimenti e un impegno costante per la qualità. La seconda è più alla nostra portata: consente alcune economie, ma non permette errori di programmazione, soprattutto di sovrapposizione tra ricerca pubblica e privata. La terza è l’opzione perdente, che porta al declino.
Così come perdente sarebbe cambiare il nome della Facoltà solo per un furbesco espediente di marketing. Consentitemi una piccola provocazione. Alle denominazioni già riportate, io preferirei «Facoltà di ingegneria agroalimentare». Non tanto per aumentare il peso della Meccanica o delle Costruzioni, quanto per indicare profili di studio e professione basati su serietà, rigore e concretezza: sul piano, appunto, di quelli degli ingegneri.

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