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L'Informatore Agrario
Sommario rivista Approfondimento
 
2
 13-19 Gen.

  2006
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Rubriche LAVORO E PREVIDENZA

Solo il lavoro manuale può essere assicurato

Sentenza della Cassazione troppo restrittiva

La Suprema corte ha respinto la richiesta di una rendita per infortunio da parte di una coltivatrice diretta che ha riportato una lesione permanente nel portare documenti agli uffici della propria associazione

Compito della giurisprudenza è interpretare la legge. L’interpretazione può essere estensiva (cioè la legge disse meno di ciò che volle) o restrittiva (la le legge disse più di quanto volle).
La decisione della Corte di cassazione che riporto di seguito è, a mio parere, una sentenza rigorosamente restrittiva.
Il fatto. Una coltivatrice, mentre torna dall’ufficio della sua associazione di categoria, dopo avere consegnato le fatture relative alla contabilità della propria azienda agricola, viene investita da un’autovettura riportando una lesione permanente.
La signora, assicurata all’Inail come coltivatrice diretta, chiede l’assegnazione della rendita per infortunio, che le viene negata prima dall’Istituto stesso e poi dalla Magistratura, sino al giudizio della Cassazione che, come si è detto, ha respinto definitivamente la richiesta con sentenza n. 11929/2004.
Queste in sintesi le motivazioni della Corte.

Le considerazioni della Cassazione
Il Testo unico sull’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro (dpr 1124/1965) «non ricomprende tra le lavorazioni connesse, complementari o accessorie eseguite sul fondo o nell’interesse e per conto di una azienda agricola, ogni attività umana che si trovi a essere, anche solo occasionalmente e indirettamente, ricollegabile al multiforme esercizio dell’agricoltura».
La copertura assicurativa presuppone che l’intervento operativo non sia svolto nell’adempimento di un dovere o per un interesse personale dell’agricoltore come cittadino, dove il collegamento con il lavoro agricolo è puramente occasionale o accidentale.
Lo svolgimento di queste operazioni esprime una scelta di carattere personale, limitandosi a rispondere a un’esigenza individuale e «ideologica» (proprio così!) dell’agricoltore.
Vediamo come si può rispondere a tali considerazioni, rispettabili per l’autorità da cui provengono, ma improntate a una severità, a mio parere, immeritata.
Il problema ruota attorno al concetto di manualità, contenuto nella legge del 26-10-1957 n. 1047. Questa legge ha esteso l’assicurazione per invalidità, vecchiaia e superstiti ai coltivatori diretti (e ai coloni-mezzadri), che abitualmente si dedicano alla «manuale» coltivazione del fondo o all’allevamento del bestiame.
Che cosa è la manualità? In che consiste il lavoro manuale del coltivatore diretto?
A quell’epoca (1957) quasi tutti i lavori agricoli erano manuali.
Poi, con la meccanizzazione dell’agricoltura, sempre più diffusa, e per le crescenti esigenze amministrative e contabili, le mani del coltivatore impugnarono sempre meno la vanga per usare sempre più la penna.
E forse che il coltivatore è tale solo quando guida il trattore o usa la mungitrice e non lo è più quando compila il modello Dmag Unico trimestrale o si reca al Patronato con una borsa di documenti per la denuncia dei redditi?
Il requisito della manualità, così come sopravvive in una norma di 50 anni fa, andrebbe quanto meno sottoposto a una moderna revisione legislativa, se non addirittura a una salutare abrogazione (e infatti con le recenti riforme per la modernizzazione del comparto agricolo, si va sempre più imponendo la figura dell’imprenditore agricolo professionale).
Quanto al motivo dell’interesse soggettivo e non professionale della persona che, secondo la Corte, avrebbe agito nella circostanza (consegna delle fatture all’ufficio di consulenza) non come coltivatrice, ma come semplice cittadina, qualsiasi cittadino, quando adempie a un obbligo amministrativo proprio della categoria cui appartiene (agricoltore, artigiano, commerciante, medico, avvocato, ecc.), lo fa proprio in quanto facente parte di detta categoria.
Se quella persona non avesse appartenuto alla compagine professionale dei coltivatori diretti, non avrebbe dovuto conservare tutte le fatture e quindi non avrebbe avuto alcun interesse a recarsi allo sportello dell’associazione. Il suo interesse dunque non era accidentale o generico, o puramente civico, ma era un autentico interesse professionale, intimamente legato, connesso e complementare con l’attività della sua azienda.
Oltretutto non si comprende che cosa debba intendersi per quella che la Corte chiama esigenza «ideologica». Forse che il curare rapporti con la propria associazione risponde a una scelta filosofica e non invece a una necessità pratica dovuta alla complessità degli odierni adempimenti burocratici? Trattasi in ogni caso di una scelta insindacabile che non altera i termini della questione.
Va tenuto presente inoltre che il coltivatore (come ogni altro imprenditore) è tenuto a dichiarare i propri redditi e per farlo deve necessariamente presentare le fatture all’ufficio che gliele chiede.
Quanto, infine, al motivo che l’atto della consegna delle fatture non rientrerebbe nelle attività connesse con le lavorazioni aziendali, è vero che essa non implica l’uso di attrezzi o macchine operatrici, ma si tratta pur sempre di operazioni complementari alla complessa (multiforme, come riconosce la stessa sentenza) gestione aziendale, che non è fatta sempre e soltanto di semine, sfalci e raccolti, ma anche e in crescente misura di interventi organizzativi e amministrativi.
D’altra parte, la stessa Cassazione riconosce che esistono situazioni, non strettamente esecutive, ma ugualmente ricollegabili all’esercizio dell’agricoltura, e come tali, degne di protezione assicurativa (si pensi, ad esempio, all’agricoltore che si infortuna mentre si reca a comprare bestiame).
Alla luce di tante incertezze, sarebbe opportuno riesaminare equamente l’istituto dell’infortunio in itinere, comprendendovi alcune circostanze ambientali che per ora ne rimangono escluse.

Sommario rivista Marcello De Luigi
 


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