LAVORO E PREVIDENZA |
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Solo il lavoro manuale può essere assicurato |
Sentenza della Cassazione troppo restrittiva
La Suprema corte ha respinto la richiesta di una rendita per infortunio
da parte di una coltivatrice diretta che ha riportato una lesione permanente
nel portare documenti agli uffici della propria associazione
Compito della giurisprudenza è interpretare la legge. L’interpretazione
può essere estensiva (cioè la legge disse meno di ciò che volle) o
restrittiva (la le legge disse più di quanto volle).
La decisione della Corte di cassazione che riporto di seguito è, a mio
parere, una sentenza rigorosamente restrittiva.
Il fatto. Una coltivatrice, mentre torna dall’ufficio della sua associazione
di categoria, dopo avere consegnato le fatture relative alla contabilità
della propria azienda agricola, viene investita da un’autovettura riportando
una lesione permanente.
La signora, assicurata all’Inail come coltivatrice diretta, chiede
l’assegnazione della rendita per infortunio, che le viene negata prima
dall’Istituto stesso e poi dalla Magistratura, sino al giudizio della
Cassazione che, come si è detto, ha respinto definitivamente la richiesta
con sentenza n. 11929/2004.
Queste in sintesi le motivazioni della Corte.
Le considerazioni della Cassazione
Il Testo unico sull’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul
lavoro (dpr 1124/1965) «non ricomprende tra le lavorazioni connesse,
complementari o accessorie eseguite sul fondo o nell’interesse e per conto
di una azienda agricola, ogni attività umana che si trovi a essere, anche
solo occasionalmente e indirettamente, ricollegabile al multiforme esercizio
dell’agricoltura».
La copertura assicurativa presuppone che l’intervento operativo non sia
svolto nell’adempimento di un dovere o per un interesse personale
dell’agricoltore come cittadino, dove il collegamento con il lavoro agricolo
è puramente occasionale o accidentale.
Lo svolgimento di queste operazioni esprime una scelta di carattere
personale, limitandosi a rispondere a un’esigenza individuale e «ideologica»
(proprio così!) dell’agricoltore.
Vediamo come si può rispondere a tali considerazioni, rispettabili per
l’autorità da cui provengono, ma improntate a una severità, a mio parere,
immeritata.
Il problema ruota attorno al concetto di manualità, contenuto nella legge
del 26-10-1957 n. 1047. Questa legge ha esteso l’assicurazione per
invalidità, vecchiaia e superstiti ai coltivatori diretti (e ai
coloni-mezzadri), che abitualmente si dedicano alla «manuale» coltivazione
del fondo o all’allevamento del bestiame.
Che cosa è la manualità? In che consiste il lavoro manuale del coltivatore
diretto?
A quell’epoca (1957) quasi tutti i lavori agricoli erano manuali.
Poi, con la meccanizzazione dell’agricoltura, sempre più diffusa, e per le
crescenti esigenze amministrative e contabili, le mani del coltivatore
impugnarono sempre meno la vanga per usare sempre più la penna.
E forse che il coltivatore è tale solo quando guida il trattore o usa la
mungitrice e non lo è più quando compila il modello Dmag Unico trimestrale o
si reca al Patronato con una borsa di documenti per la denuncia dei redditi?
Il requisito della manualità, così come sopravvive in una norma di 50 anni
fa, andrebbe quanto meno sottoposto a una moderna revisione legislativa, se
non addirittura a una salutare abrogazione (e infatti con le recenti riforme
per la modernizzazione del comparto agricolo, si va sempre più imponendo la
figura dell’imprenditore agricolo professionale).
Quanto al motivo dell’interesse soggettivo e non professionale della persona
che, secondo la Corte, avrebbe agito nella circostanza (consegna delle
fatture all’ufficio di consulenza) non come coltivatrice, ma come semplice
cittadina, qualsiasi cittadino, quando adempie a un obbligo amministrativo
proprio della categoria cui appartiene (agricoltore, artigiano,
commerciante, medico, avvocato, ecc.), lo fa proprio in quanto facente parte
di detta categoria.
Se quella persona non avesse appartenuto alla compagine professionale dei
coltivatori diretti, non avrebbe dovuto conservare tutte le fatture e quindi
non avrebbe avuto alcun interesse a recarsi allo sportello
dell’associazione. Il suo interesse dunque non era accidentale o generico, o
puramente civico, ma era un autentico interesse professionale, intimamente
legato, connesso e complementare con l’attività della sua azienda.
Oltretutto non si comprende che cosa debba intendersi per quella che la
Corte chiama esigenza «ideologica». Forse che il curare rapporti con la
propria associazione risponde a una scelta filosofica e non invece a una
necessità pratica dovuta alla complessità degli odierni adempimenti
burocratici? Trattasi in ogni caso di una scelta insindacabile che non
altera i termini della questione.
Va tenuto presente inoltre che il coltivatore (come ogni altro imprenditore)
è tenuto a dichiarare i propri redditi e per farlo deve necessariamente
presentare le fatture all’ufficio che gliele chiede.
Quanto, infine, al motivo che l’atto della consegna delle fatture non
rientrerebbe nelle attività connesse con le lavorazioni aziendali, è vero
che essa non implica l’uso di attrezzi o macchine operatrici, ma si tratta
pur sempre di operazioni complementari alla complessa (multiforme, come
riconosce la stessa sentenza) gestione aziendale, che non è fatta sempre e
soltanto di semine, sfalci e raccolti, ma anche e in crescente misura di
interventi organizzativi e amministrativi.
D’altra parte, la stessa Cassazione riconosce che esistono situazioni, non
strettamente esecutive, ma ugualmente ricollegabili all’esercizio
dell’agricoltura, e come tali, degne di protezione assicurativa (si pensi,
ad esempio, all’agricoltore che si infortuna mentre si reca a comprare
bestiame).
Alla luce di tante incertezze, sarebbe opportuno riesaminare equamente
l’istituto dell’infortunio in itinere, comprendendovi alcune circostanze
ambientali che per ora ne rimangono escluse.
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