Ridurre le emissioni di metano: il futuro è nelle prove in vitro

Tra le diverse fonti di emissioni di metano, quella relativa alle fermentazioni ruminali che avvengono durante il normale processo di digestione contribuisce in modo rilevante alle emissioni zootecniche totali (circa 30-40%). L’opinione pubblica ha preso ormai coscienza delle problematiche del riscaldamento globale e l’Unione europea ha recentemente deciso di ridurre, entro il 2030,  la diffusione in atmosfera di metano del 36% rispetto ai livelli del 2005.

Pertanto, vi è una crescente pressione dei governi sulla ricerca e sulle attività produttive in questo ambito per adottare azioni concrete volte a ridurre le emissioni anche nel comparto di allevamento dei ruminanti.

La misura dell’emissione di metano però non è un rilevamento semplice, specialmente nel caso di animali di dimensioni elevate come i bovini. La tradizionale misura diretta dell’emissione di metano dei ruminanti utilizza le camere respiratorie, apparecchiature costose (camere a tenuta dei gas), con strumentazioni analitiche sofisticate che richiedono il contenimento degli animali al loro interno per periodi piuttosto lunghi (ad esempio 24-48 ore).

Sono disponibili diverse alternative alle camere che, in generale, prevedono l’impiego di attrezzature più semplici (ad esempio la tecnica del tracciante SF6, tecniche di misurazione come GreenFeed, metodo sniffer, cappa ventilata, maschera facciale o rilevatori laser e camera di accumulo portatile) anche se molti esperti affermano che la misura nelle camere rimane quella di riferimento in vivo per accuratezza e precisone.

Tuttavia, gli studi in vivo sono difficili da standardizzare e sollevano alcune preoccupazioni riguardo al comportamento e al benessere degli animali. Per questi motivi, cresce l’apprezzamento per gli esperimenti alternativi a quelli che coinvolgono gli animali (cruelty free). Pertanto, le tecniche di fermentazione ruminale in vitro basate sulla produzione di gas e adattate alle misurazioni di CH4 potrebbero essere le candidate per supportare il grande lavoro futuro previsto nella ricerca in questo settore.

Infatti, gli approcci in vitro rispetto a quelli in vivo consentono di testare un elevato numero di mangimi/diete a costi unitari molto inferiori rispetto alle prove in vivo.
In aggiunta va ricordato che molti dei prodotti chimici, ma anche naturali, con attesi effetti sulla microflora ruminale potrebbero essere tossici per gli animali e questo comprometterebbe le condizioni di benessere degli animali in prova o la salubrità delle loro produzioni zootecniche.

Le prove in vitro si prestano a una valutazione veloce non solo degli effetti sul metano, ma pure sull’intensità di degradazione dei prodotti aggiunti a livello ruminale, tuttavia hanno anche qualche limite:

  • l’accumulo dei prodotti di fermentazione;
  • la difficoltà di studiare i dosaggi che si usano nelle condizioni pratiche di allevamento per l’elevato rapporto liquido fermentativo/substrato tipico delle prove in vitro;
  • la variabilità della capacità fermentante del liquido ruminale che cambia ad ogni ciclo di fermentazione poiché prelevato da animali diversi.

Nonostante tali limiti, le prove in vitro vanno considerate come un potente strumento di indagine preliminare, particolarmente adattato a ricerche finalizzate a testare numeri elevati di additivi e a identificare quelli potenzialmente più interessanti da verificare successivamente in mirate prove in vivo.

 

Tratto dall’articolo pubblicato su Stalle da Latte  n. 5/2021
Misurare le emissioni: promettenti risultati dalle prove in vitro
di M. Spanghero
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