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L'Informatore Agrario
Sommario rivista Approfondimento
23
 8 - 14 Giu.

  2007
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Attualità POLITICA

Diamo un valore alla qualità del grano

Il contratto di filiera Grand’Italia.
Obiettivo del contratto è la fornitura all’industria pastaria di grano duro italiano di qualità a un prezzo che remuneri gli sforzi dei produttori.

Non sempre ce ne rendiamo conto ma siamo testimoni in questi anni di una rivoluzione silenziosa dell’agricoltura italiana. Le profonde modifiche del mercato e le radicali evoluzioni delle politiche comunitarie stanno ridisegnando completamente il settore agricolo all’interno dell’Ue.
Vi sono comparti, poi, dove queste modifiche stanno avvenendo in maniera ancor più repentina. Tra questi vi è sicuramente quello del grano duro, coltura strategica di estrema importanza per l’agroalimentare italiano nel suo complesso.
È noto da tempo come l’industria pastaria italiana, leader a livello mondiale, dipenda in gran parte dalle importazioni dall’estero e numerosi in questi anni sono stati i tentativi per ridare slancio al grano duro italiano e renderlo maggiormente «appetibile» ai pastifici nostrani. Purtroppo con risultati finora non certo esaltanti.
Per uscire dalla purtroppo sterile e poco fruttuosa polemica tra l’industria (che chiede ai produttori la fornitura di materia prima di maggiore qualità, partite più uniformi, centri di stoccaggio più adeguati) e i produttori di grano duro italiano (che chiedono prezzi che riconoscano lo sforzo qualitativo in maniera adeguata) a Foggia, il 1° giugno scorso, è stato presentato ufficialmente un progetto di filiera innovativo, e per certi aspetti rivoluzionario, per la produzione, trasformazione, commercializzazione del grano duro italiano di alta qualità.
Capofila del progetto è la società Grand’Italia, creata dalla volontà comune di due importanti realtà nazionali come la Coseme e la Molino Casillo Francesco.
«Obiettivo del progetto – ha spiegato Armando Martino, presidente di Grand’Italia e di Assocer Foggia, nell’ambito di una interessante tavola rotonda alla quale ha partecipato praticamente oltre il 60% della realtà pastaria del nostro Paese – è di creare le condizioni per la concreta soddisfazione economica di tutti gli operatori della filiera. Il mezzo per raggiungre tale obiettivo è quello di un maggiore coinvolgimento, abbattendo le tradizionali diffidenze che caratterizzano il settore e sostituendole con rapporti di partnership».

Si guarda avanti
Con questo tipo di progetto, quindi, si vuole superare il classico modello di accordi interprofessionali «che – ha sottolineato Martino – non hanno mai portato a nulla di concreto perché di fatto non danno certezze né ai produttori, né ai trasformatori e tanto meno determinano precise regole di mercato».
«Siamo convinti – ha evidenziato Francesco Casillo – che per superare il problema delle importazioni di grano duro dall’estero si debba migliorare decisamente la qualità del prodotto italiano attraverso il riconoscimento economico di questo sforzo da parte dei produttori. Sarebbe un deciso vantaggio per l’industria pastaria italiana poter ricorrere maggiormente al grano duro nazionale, perché con il prodotto importato siamo costretti a pagare prezzi talvolta superiori anche fino al 35% rispetto al duro italiano».
«È importante, però – ha con veemenza sottolineato Mario Rummo, presidente dell’Unipi (l’Unione dei pastai italiani) – uscire velocemente dalla demagogia che tutta la pasta italiana può essere realizzata con grano duro italiano. Può essere decisamente aumentata questa quota, e ne beneficerebbe sicuramente anche l’immagine della nostra pasta made in Italy, ma sarebbe poco utile continuare a insistere sulla questione del 100% grano duro italiano».
In concreto, il progetto prevede un contratto di coltivazione con il quale tutti gli agricoltori coinvolti, che avranno rapporti con gli operatori convenzionati, dovranno impegnarsi a consegnare allo stesso conferitore affinché questo sottoscriva un contratto di coltivazione con Grand’Italia, e quest’ultima, con il Molino acquirente, che preveda sia l’individuazione dell’origine del seme, unicamente tra le varietà indicate nel disciplinare di produzione, sia la consegna presso un centro di stoccaggio autorizzato e, infine, l’immissione del prodotto sul mercato gradualmente nel tempo, con fissazione del prezzo in base al contenuto proteico, rilevato oggettivamente da società specializzate.
«La differenza – ha sottolineato Martino – fra gli accordi e il contratto è evidente: i primi non garantiscono la disponibilità del prodotto da parte di chi li sottoscrive mentre il secondo si basa proprio sulla certezza che da tale rapporto emerge: quella di produrre effettivamente ciò che si contratta mesi prima, immettendolo sul mercato gradatamente e assicurando alla parte agricola e all’operatore convenzionato un premio che li ripaga concretamente degli sforzi compiuti per produrre la qualità e tenerla separata dal resto delle masse».
Già da quest’anno, con questo contratto, Grand’Italia pensa di ottenere circa 450.000 q di grano duro da macina e 150.000 q da seme, con cui coprire 60.000 ha la prossima annata.
Altro elemento importante inserito nel progetto è il ruolo delle Borse merci. «Un processo di filiera – ha spiegato Martino a questo riguardo – non può prescindere da parametri oggettivi. Essi sono rappresentati e forniti dalle Borse merci. L’auspicio sarebbe quello di avere un omogeneo principio e criterio nella fissazione dei prezzi, da Nord a Sud. Medesimi parametri per tutte le Borse, atti a identificare univocamente le quotazioni, tenendo conto della logistica e della differenziazione delle stesse in base all’origine dello scambio, derivi esso dal produttore o dall’operatore commerciale».

 

Sommario rivista

di Fabio Piccoli


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